L'editoriale del nuovo numero di FalceMartello
Le ultime stime dicono che quest’anno il Pil italiano calerà dell’1,8 per cento. Dopo cinque anni di crisi la famosa luce in fondo al tunnel ancora non si vede. Letta e i suoi ministri ripetono il rito propiziatorio e ci assicurano che a fine anno arriverà la ripresa, ma le cifre raccontano un’altra storia.
Il rapporto delle Coop sui consumi mette nero su bianco quello che già vediamo tutti i giorni: tre milioni di famiglie, il 12,3 per cento della popolazione, non possono permettersi un pasto proteico ogni due giorni, 9 milioni di italiani non possono sostenere una spesa imprevista di 800 euro, si rinuncia sempre più spesso all’uso dell’automobile (25 per cento della popolazione), alle vacanze (4 milioni di persone in meno questa estate), a comprare abiti nuovi (23 per cento della popolazione).
In sei anni la spesa alimentare è crollata del 14 per cento attestandosi ai livelli del 1971 (2.400 euro pro capite). Le previsioni per il 2014 sono di un ulteriore calo: -0,5 per cento nell’alimentare, -6,1 nel non alimentare.
L’ineffabile “nipote di suo zio” che ci governa, non trova di meglio che esentare dall’Imu anche i ricchi, l’aumento dell’Iva è ancora in campo, la nuova Service tax che dovrà coprire il mancato gettito dell’Imu sarà una stangata per i più poveri e per chi vive in affitto, si impedisce a migliaia di insegnanti di andare in pensione e si tengono alla porta altrettante migliaia di vincitori di concorso che avrebbero dovuto entrare nella scuola (dovevano esere 25mila, forse saranno 7mila).
La crisi sociale marcisce, quella politica diventa una farsa. La distanza fra governanti e governati è diventata un abisso incolmabile, che riflette l’abisso ancora più profondo che separa, in Italia e nel mondo, ricchezza e povertà.
Nei quartieri generali della politica, la priorità del giorno è cercare di salvare capra e cavoli, ossia neutralizzare gli effetti della condanna di Berlusconi, che ne imporrebbe la decadenza, senza che il Pd ci debba rimettere la faccia, ammesso che ne abbia ancora una da perdere. Grazia, salvacondotto, ricorsi alla Consulta, alla corte europea di giustizia… le ipotesi si sprecano, Napolitano passa notti insonni a cercare la soluzione magica, mentre nei retrobottega si cominciano a tirare fuori i pallottolieri: se Berlusconi decide di far saltare il banco del governo, forse sommando democratici, vendoliani, centristi, sudtirolesi, grillini col mal di pancia, pidiellini affezionati allo scranno parlamentare, senatori a vita di recente nomina, si potrebbe fare un nuovo governo.
È una farsa, ma dobbiamo capirne il significato più profondo: la classe dominante non ha più strumenti efficaci di governo, sono alla guida di un’auto nella quale i comandi non rispondono più al guidatore. Alla prima curva finiranno fuori strada, e può accadere in qualsiasi momento: un incidente parlamentare, una crisi internazionale o sui mercati finanziari possono in pochi giorni mandare in frantumi l’equilibrio precario di questo governo, lasciando la borghesia con un cumulo di macerie. A tutti coloro che, a sinistra, si lamentano della “crisi della politica”, della “distanza della politica dai cittadini” e via lacrimando, vorremmo ricordare che le vere rotture, le rotture rivoluzionarie, nascono in primo luogo dal distacco totale delle classi subalterne dal vecchio sistema. Tale rottura si è in realtà consumata nella coscienza di milioni di lavoratori, di giovani, di ceto medio impoverito dalla crisi. Milioni di persone, probabilmente la maggioranza, non si aspettano ormai più nulla dal complesso delle istituzioni (partiti, parlamento, governo, ecc.) che dovrebbero garantire la gestione del sistema. È un passaggio necessario e positivo.
È uno scandalo che in questa situazione i dirigenti della Cgil non stiano preparando una mobilitazione generale su una piattaforma di emergenza in difesa dell’occupazione, del salario e dei diritti sociali. Ma Susanna Camusso ha tutt’altro per la testa e si dedica a firmare documenti comuni con Cisl, Uil e Confindustria nei quali con toni solenni si chiede al governo di fare qualcosa “per l’occupazione e la crescita”: insomma, padroni e operai uniti nella lotta per la “governabilità valore da difendere perché vuol dire stabilità, condizione determinante per riavviare un ciclo positivo della nostra società”: è molto opportuno che questo obbrobrio sia stato firmato a margine della Festa nazionale del Pd a Genova.
I vertici confederali chiedono poi per la milionesima volta una “cabina di regia nazionale” per affrontare le crisi industriali. Soggetti invitati: sindacati, governo, banche, amministrazione fiscale. Quali tavoli si possano aprire con un padronato che per sport ha quello di chiudere le fabbriche durante le ferie facendo sparire macchinari e produzioni e lasciando i lavoratori in mezzo a una strada, con banche che si finanziano dalla Bce all’1% e prestano al 9, con un fisco che raccatta soldi martellando sempre i più poveri o con le slot machine, rimane un mistero tutto da svelare.
Un sindacato degno di questo nome dovrebbe avere già aperto una campagna nazionale trasformando ogni azienda che chiude o licenzia in una trincea, lavorando a coordinare e unire tutte le vertenze di lavoro e preparando lo sciopero generale e una battaglia all’ultimo sangue per la riapertura delle aziende chiuse sotto il controllo dei lavoratori. Siamo lontani anni luce da questo, e la ragione ha un nome preciso, si chiama collaborazione di classe.
Il nodo è tutto qui, e quanto detto per il sindacato vale altrettanto per la politica: non esiste una forza politica disposta a rompere l’ipnosi di questo quadro politico e che si ponga l’obiettivo di dare voce alla grande maggioranza della società italiana, il lavoro dipendente e gli strati sociali ad esso collegati (disoccupati, studenti, pensionati), chiamato di volta in volta a sostenere nelle urne una qualche “rivoluzione” di cartapesta (ieri Grillo, oggi Renzi) e poi sempre beffato non appena le urne si chiudono e tutto torna uguale al giorno prima.
Nel paese esiste una sinistra, sia politica che sindacale, o a cavallo tra le due funzioni (come lo è in parte la Fiom); solo che questa sinistra, al di là delle collocazioni contingenti, rimane ad oggi ostinatamente aggrappata alla speranza del “governo di cambiamento”, nonostante tale speranza sia platealmente fallita dopo le elezioni di febbraio. Si spera in tutto e tutti: chi guarda a Vendola, chi appende le sue speranze al congresso Pd (qualcuno persino in Renzi), insomma qualsiasi illusione è accreditata come strategia politica. Tutti rifiutano invece ostinatamente di perseguire l’unica ipotesi realistica: quella di organizzare la più grande forza presente nella nostra società, quella della classe lavoratrice, attorno a un programma di rottura con questo sistema marcio, ormai incapace di garantire una vita accettabile alla maggioranza della popolazione.
L’assenza di un partito di classe nel nostro paese non è casuale, nasce da una lunga catena di cause, vicine e lontane, di cui l’ultimo atto sono stati i pietosi fallimenti dei governi di centrosinistra che hanno lasciato una sinistra in macerie, politicamente e organizzativamente.
È questo fallimento, in ultima analisi, che sta facendo marcire la crisi in una spirale discendente apparentemente senza fine: ogni governo è peggiore del precedente, ogni controriforma sembra fatta solo per prepararne una ancora più disastrosa, ogni arretramento anziché toccare il fondo non fa che spostare ancora più indietro l’intera situazione.
Da questa spirale si uscirà solo quando i lavoratori e i giovani rialzeranno la testa e imboccheranno la strada dei nostri compagni turchi, brasiliani, egiziani… che ancora in questi mesi ci hanno dimostrato che se la massa si muove non c’è forza che la possa trattenere. E se ne uscirà con la costruzione di una forza politica, di un partito della classe lavoratrice e di tutti gli sfruttati, un partito che rompa con questa aria ammorbata dall’unità nazionale e dalla collaborazione di classe e alzi invece la bandiera del conflitto e della lotta contro il sistema.
Lavorare per questo obiettivo è l’unico compito degno al quale possono dedicarsi quelle migliaia di militanti della sinistra che negli anni scorsi sono stati gettati alla deriva dalle politiche fallimentari dei vari gruppi dirigenti. Non si farà in un giorno o in una settimana; per raggiungere questo obiettivo non basta proclamarlo, bisogna anche incalzare le contraddizioni di quei dirigenti politici e sindacali della sinistra che “potrebbero ma non vogliono”. Un esempio è il segretario della Fiom Landini, che invece di utilizzare il prestigio della categoria che dirige per organizzare passerelle ai Rodotà di turno, dovrebbe fare leva sui punti di conflitto reale per scardinare il meccanismo che ingabbia la lotta di classe.
A chi ci dice che tutto questo è magari buono e giusto, ma che è troppo difficile o troppo lontano, che magari in nome del “realismo” ci invita a porci obiettivi più modesti, rispondiamo che una sinistra che non si ponga su questo terreno passa inevitabilmente a fare parte del problema e non della soluzione.
La crisi (economica, sociale, politica) è un nodo sempre più aggrovigliato che non può essere sciolto: deve essere tagliato.