L’anno nuovo inizia con l’ammonimento del presidente della Bce, Mario Draghi, che ci avverte che “è prematuro dire che la crisi è sconfitta” aggiungendo che “per il 2014 e per il 2015 la ripresa dell’Eurozona sarà debole”. (Corriere della sera, 10 gennaio)
L'editoriale del nuovo numero di FalceMartello
Le parole di Draghi i lavoratori italiani e le loro famiglie le vivono sulla propria pelle.
Nel 2013, secondo l’Istat, l’occupazione è crollata, con quasi 450mila lavoratori in meno. Il tasso di disoccupazione giovanile è del 41,6%, un dato che non si registrava dal 1977. Le domande per la concessione di Aspi e MiniAspi (il nuovo sussidio di disoccupazione) sono state quasi due milioni nei primi undici mesi del 2013, con un aumento del 32% rispetto all’anno precedente.
Per gli strateghi del capitale, la soluzione per uscire dalla recessione è sempre la stessa. Draghi ritiene per l’Italia “decisiva l’attuazione di riforme strutturali”.
La preoccupazione sul futuro del Belpaese è condivisa anche da un editoriale del quotidiano britannico Financial Times del 6 gennaio scorso:
“L'importanza dell'Italia per il futuro dell'Eurozona può difficilmente essere sopravvalutata. Senza più la possibilità di una qualsiasi forma di condivisione del debito, l'Italia ha una sola strada da intraprendere se vuole mantenersi nell'Eurozona. La sua economia deve diventare come quella tedesca. Dubitiamo che sia possibile (...) ma se questo è l'obiettivo, ha bisogno di ridurre il costo del lavoro ai livelli tedeschi, e lo strumento più efficace per farlo è tagliare le tasse che le imprese pagano per i lavoratori.”
“Far diventare l’Italia come la Germania” è uno dei desiderata della classe dominante italiana. Un sogno proibito, in primo luogo per la debolezza strutturale della borghesia italiana, che si riflette nella prolungata crisi di sistema che il paese sta sperimentando da diversi anni. In questa instabilità totale del quadro politico la formula dell’unità nazionale è stata negli ultimi due anni l’unica soluzione possibile per governare il paese.
Governi che portano avanti controriforme, tagli allo stato sociale e impongono sacrifici alla classe operaia. Il governo Letta, ad esempio, ha varato una Legge di stabilità con 16 miliardi di euro di tagli alla spesa pubblica; ora mette in vendita immobili pubblici per 1,2 miliardi di euro e prepara la privatizzazione delle Poste.
Allo stesso tempo non ha la forza per portare avanti ciò che servirebbe alla borghesia europea ed italiana: quelle riforme strutturali che significano soprattutto una riduzione drastica del costo del lavoro.
La provocazione del taglio di 150 euro al mese degli stipendi di 80mila insegnanti, ritirata nel giro di 24 ore (ma i soldi si dovranno trovare all’interno del bilancio della scuola, quindi ci saranno altri tagli), non è stata la trovata di un ministro sprovveduto. La classe dominante avrebbe bisogno di provvedimenti di questo genere, ma a causa delle contraddizioni interne all’esecutivo, non è oggi in grado di portarli avanti.
Nel frattempo, il governo di unità nazionale decompone le forze politiche che ne fanno parte: c’è la stata la scissione del Pdl di Berlusconi e la cancellazione nei fatti del partito di Monti, Scelta civica. Ora tutte le pressioni convergono sull’azionista di maggioranza, il Partito democratico. La contraddizione consiste nel fatto che, più a lungo dura il governo Letta-Alfano, più la solidità del Partito democratico è a rischio. Gli interessi di Letta e di Renzi, nonostante abbiano la tessera dello stesso partito, sono divergenti.
Queste divergenze possono essere congelate per un periodo, ma non si possono cancellare. Una contraddizione che pone la stabilità e la durata dell’attuale esecutivo perennemente a rischio.
Un settore importante della borghesia non ha perso la speranza che si possa giungere alla tanto agognata “stabilità” di stampo tedesco e al consolidamento di un partito che rappresenti i propri interessi in maniera il più possibile compiuta. Oggi questo settore ha deciso di puntare su Matteo Renzi.
Privatizzatore dei servizi pubblici come sindaco di Firenze, sostenitore di Marchionne, fautore di tre sistemi elettorali, maggioritari e antidemocratici, che propone alla discussione delle altre forze politiche.
Matteo Renzi è un avversario del movimento operaio.
Un’ennesima riprova è il job act, la riforma del mercato del lavoro che Renzi ha deciso, non a caso, di promuovere come primo atto della sua nuova segreteria.
Una “riforma” del mercato del lavoro che è un favore chiaro ed esplicito al padronato. Il contratto unico è un contratto al ribasso, visto il precariato per tre anni (senza alcuna tutela legata all’art.18, già pesantemente depotenziato). L’assegno “universale” per chi perde l'impiego è un ricatto, visto che prevede di non poter rifiutare una nuova proposta di lavoro, qualunque essa sia.
Gli sgravi fiscali alle imprese (che già godono di una fiscalità ampiamente favorevole per le nuove assunzioni) sottendono la solita ideologia liberista. Quella che per creare lavoro bisogna togliere ogni vincolo al padronato.
Come spiega il sindaco di Firenze nella premessa del Job act: “Non sono i provvedimenti di legge che creano lavoro, ma gli imprenditori”. Infatti nel progetto renziano non è previsto alcun ruolo dello stato, a parte quello lasciare libero il campo al lassaiz faire padronale.
Non stupiscono dunque le parole della Fornero, “questa riforma l’avrei voluta fare io”, o l’appoggio del segretario della Cisl Bonanni.
Ciò che è più scandalosa è l’apertura di credito della segretaria della Cgil Camusso. Scandalosa ma non sorprendente, visto che mai nella storia del dopoguerra i vertici della Cgil sono stati così servili verso il padronato e proprio in questi giorni hanno firmato l’intesa con Confindustria, Cisl e Uil che rende operativo l’accordo del 31 maggio scorso. Quello che estende l’accordo separato di Pomigliano a tutti i lavoratori.
Ma la fila di chi vuole accedere alla corte di Renzi non finisce qui, purtroppo. Il leader di Sel, Vendola, lo definisce “una speranza per il paese”. La sua subalternità è così palese che si deve affrettare a smentire l’entrata di Sel nel Pd. Il segretario della Fiom Landini ha già incontrato Renzi e si dichiara disponibile al confronto sul Job act.
Chi ha la responsabilità, come Landini, di dirigere un’organizzazione del movimento operaio non ha alcun confronto da portare avanti con Renzi, l’unica posizione da adottare è quella di un’opposizione senza sconti alla sua figura e alle sue posizioni. Così come nella Cgil non ha senso una logica emendataria o di “correzione di linea”, una linea che ha rivelato il suo fallimento totale.
Si lascino dunque perdere i dirigenti vecchi e nuovi del centrosinistra e i convegni con intellettuali del riflusso che ormai rappresentano solo se stessi.
Si ascoltino le voci dei lavoratori in lotta, di quegli autoferrotranvieri che a Genova e a Firenze avevano le idee molto chiare sul nuovo segretario del Pd. “Un nemico dei lavoratori”, appunto.
La tragedia e l’irrilevanza della sinistra in questo paese continueranno finche non si adotterà una linea chiara di indipendenza di classe, finchè non si svelerà, a livello nazionale e locale, la natura del Pd come principale alfiere del padronato, finchè non si darà voce ai lavoratori e alle loro avanguardie.
Per questo chiediamo di impegnarvi con noi nel contrasto ad ogni posizione riformista e concertativa e, in particolare nelle prossime settimane, nell’opposizione alla linea della maggioranza nel congresso della Cgil, attraverso il sostegno al documento alternativo. È un passaggio indispensabile per chi, come noi, ha deciso di investire tutte le sue energie nel conflitto e nella lotta di classe, una unica strada per la ricostruzione di una sinistra di classe che difenda gli interessi dei lavoratori e delle classi oppresse, attraverso l’adozione di un programma rivoluzionario.