A 25 anni dalla prima invasione imperialista dell'Iraq, ripubblichiamo questo testo, – disponibile anche all'interno dell'opuscolo "La rivoluzione araba. Ieri, oggi, domani". L'articolo, ripercorrendo la storia dei movimenti nazionalisti arabi, spiega il ruolo giocato dai tradimenti e dalle oscillazioni dei partiti della sinistra araba nell'indebolimento delle forze laiche e progressiste e nell'ascesa del fondamentalismo islamico.
Dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo visto un enorme sviluppo della rivoluzione coloniale, probabilmente il più grande movimento dei popoli oppressi nella storia umana. In Asia, Africa, America Latina, decine di popoli combatterono per la propria emancipazione nazionale.
Il mondo arabo, oggi al centro degli interessi economici e strategici dell’imperialismo, fu teatro di un risveglio imponente: dall’Algeria all’Iraq, passando per l’Egitto, la Siria, la Palestina ed altri ancora, tutti i paesi arabi furono attraversati da movimenti rivoluzionari laici e progressisti, a dispetto della propaganda borghese che tende a dipingere le popolazioni arabe come “naturalmente inclini” al fondamentalismo islamico. Questi movimenti di massa costrinsero l’imperialismo, specie quello britannico e quello francese, a ritirarsi. Anche se diversi paesi come l’Egitto e l’Iraq avevano già ottenuto, prima del conflitto mondiale, l’indipendenza politica formale, i regimi al potere continuavano ad essere strettamente legati alle ex potenze coloniali.1 I movimenti rivoluzionari nei paesi coloniali del secondo dopoguerra furono dunque il tentativo messo in atto dai popoli arabi di avviarsi verso l’effettiva indipendenza.2 Ovunque si formarono repubbliche democratico-borghesi i cui governi, in un primo momento, si fecero spesso promotori di politiche progressiste. Tuttavia, 50 anni dopo, l’indipendenza delle ex-colonie sembra essere ridotta al nulla. Tutti i paesi arabi continuano a restare legati al carro dell’imperialismo attraverso il meccanismo del mercato mondiale e, sebbene non vi siano forme di governo esplicitamente coloniali come i protettorati e i mandati (fatta eccezione per l’Afghanistan e l’Iraq dove è in atto il tentativo di un controllo militare e burocratico diretto da parte dell’imperialismo), questi paesi, nei fatti, sono più asserviti di quanto non lo fossero in precedenza. Perché questo è accaduto è un fatto che i marxisti devono coscientemente analizzare alla luce dell’esperienza storica.
Alle origini del nazionalismo arabo
Il progetto del nazionalismo arabo, e dei nascenti movimenti nazionalisti borghesi che nel dopoguerra si andavano sviluppando in tutto il mondo coloniale, era quello di fondare un capitalismo nazionale indipendente, magari in grado di competere con l’imperialismo. Alla base della diffusione dei sentimenti nazionalisti vi erano le trasformazioni economiche che la penetrazione profonda del capitalismo imperialista aveva operato in Medio Oriente. Più il capitalismo penetrava in profondità più esso determinava sottosviluppo e dipendenza. La stessa piccola e media borghesia urbana e rurale subì un processo di pauperizzazione e cercò di sfuggire alla miseria aggrappandosi all’esercito, che come vedremo tanta parte avrà nello scoppio delle rivoluzioni. Oltre agli obiettivi classici del nazionalismo borghese (l’indipendenza economica e politica), il nazionalismo arabo conteneva anche l’aspirazione alla riunificazione della nazione araba: è impossibile capire un solo avvenimento in questa regione del mondo se non si parte dalla premessa che c’è una sola nazione araba, con lingua, coscienza e cultura comune, nonostante le varie identità nazionali che si sono sviluppate più recentemente. È sufficiente un rapido sguardo alla cartina per capire immediatamente come il vasto territorio abitato dalla nazione araba sia stato diviso arbitrariamente tracciando linee rette sulle sabbie del deserto e creando Stati artificiali. L’Iraq, la Siria, il Kuwait, la Giordania, il Libano ecc… sono creazioni assolutamente artificiali, stabilite dagli imperialisti per rafforzare il loro controllo sugli interessi strategici vitali della regione. Infatti, a conclusione della Conferenza della pace di Parigi del 1919, simposio delle potenze imperialiste vincitrici della guerra, venne approvata la seguente risoluzione: “È compito della conferenza separare alcuni territori comprendenti, per esempio, la Palestina, la Siria, i paesi arabi a est della Palestina e della Siria, la Mesopotamia, l’Armenia, la Cilicia e probabilmente alcuni territori dell’Asia Minore, e promuovere lo sviluppo delle loro popolazioni sotto la guida di agenti come mandatari della Società delle Nazioni”.
Per fare un esempio, gli attuali Stati della Siria e del Libano sotto l’Impero Ottomano erano legati da stretti rapporti economici e amministrativi. L’imperialismo francese pensò dunque di creare una barriera artificiale fra i due territori e di consolidare, attraverso innumerevoli provocazioni, una tensione fra i due paesi che dura ancora oggi. La Giordania (originariamente Transgiordania) venne invece inventata a tavolino tracciando una linea lungo il fiume Giordano: i territori ad ovest erano destinati ai sionisti che in base alla Dichiarazione di Balfour3 si apprestavano a creare un “focolare nazionale” in Palestina; i territori ad est del Giordano, l’attuale Giordania, dovevano servire invece a soddisfare gli arabi in modo che la Gran Bretagna potesse dedicarsi più agevolmente a sviluppare l’insediamento del “focolare ebraico” su quanto era rimasto della Palestina. Ma così non fu: l’ingerenza tipica del divide et impera dell’imperialismo fu all’origine del dramma della questione palestinese.
Per raggiungere l’obiettivo della frammentazione della nazione araba l’imperialismo ha cinicamente promosso e sfruttato la discordia e gli antagonismi fra le diverse comunità religiose (mussulmani sciiti e sunniti, cristiani ortodossi e maroniti, drusi, ebrei, ecc…). Il pretesto della tutela dei diritti delle minoranze fu utilizzato dagli inglesi nel corso della cosiddetta Conferenza della pace di Parigi del 1919 per giustificare il loro dominio e gettare i semi di alcune delle tensioni più gravi che affliggono ancora oggi i paesi arabi. Gli inglesi dicevano agli arabi: “L’alto Iraq non può essere indipendente perché bisogna darlo agli assiro-caldei”, e a questi ultimi: “Non lo potete avere perché lo vogliono i curdi”, e così via. Inoltre, una volta istituiti i mandati, le potenze mandatarie (Francia e Gran Bretagna) decisero di servirsi delle minoranze per far funzionare l’amministrazione. Impiegati e funzionari venivano scelti fra ebrei e cristiani in Palestina, fra le varie comunità cristiane in Siria e in Iraq. Manovrare, strumentalizzare le minoranze serviva così ad indebolire la struttura del futuro Stato indipendente in modo da avvantaggiare la penetrazione dell’antico colonizzatore.
Tuttavia, nonostante le discordie e le tensioni che si trascinano fino ai giorni nostri e di cui unici responsabili devono essere considerati gli imperialisti, la causa prima di tutti gli avvenimenti turbolenti che hanno scosso il Medio Oriente a partire dalla fine della Prima guerra mondiale è riconducibile all’aspirazione delle masse a riunificare la nazione araba, spartita a pezzi dall’imperialismo britannico e francese nel corso della Conferenza della pace.
La rivoluzione permanente
Abbiamo visto come obiettivo dei movimenti nazionalisti che si svilupparono nel mondo arabo fosse la fondazione di un capitalismo indigeno indipendente e di una borghesia nazionale forte in grado di competere con le borghesie dei paesi imperialisti. Tuttavia, come spiegava Trotskij nella teoria della rivoluzione permanente, sviluppata per la prima volta nel 1906 all’indomani del primo tentativo rivoluzionario messo in atto dalle masse russe,4 la borghesia nazionale nei paesi coloniali è entrata nella storia troppo tardi, quando il mondo è stato già suddiviso tra un manipolo di potenze imperialiste. Per questo motivo, non è in grado di giocare alcun ruolo storico ed è destinata a restare subordinata alle borghesie dei paesi imperialisti. Le borghesie in Asia, America Latina ed Africa sono deboli e troppo dipendenti dal capitale straniero. Questo è oggi ancor più vero: le borghesie dei paesi ex-coloniali si sono infatti sviluppate sul terreno preparato dal dominio dell’imperialismo e traggono i propri profitti dalle attività economiche ed industriali dettate dalle multinazionali straniere. Non solo queste borghesie sono dipendenti dal capitale straniero, ma sono anche legate da mille fili con la classe dei proprietari terrieri: capitalista cittadino e proprietario terriero sono spesso la stessa persona o persone legate da vincoli familiari. 5 In questo contesto viene osteggiato qualsiasi serio tentativo di riforma agraria in grado di modernizzare l’agricoltura e di migliorare le condizioni dei contadini poveri. Per questo motivo, anche dopo le rivoluzioni democratico-borghesi avvenute nei paesi coloniali, le varie economie di questi paesi continuavano a restare sostanzialmente monocolturali e d’esportazione così come deciso secondo le convenienze dell’ex-colonizzatore. Nella sostanza, se la rivoluzione coloniale non ha reso effettivamente liberi i paesi arabi dall’imperialismo è perché essa ha lasciato invariate le precedenti strutture sociali ed economiche, lasciando aperta la possibilità all’imperialismo di tornare a penetrare, magari attraverso forme di dominio differenti da quelle propriamente coloniali.
Per questa ragione l’unica classe che può giocare un ruolo coerentemente rivoluzionario in questi paesi è la classe operaia, alleata con i contadini poveri, organizzata con i metodi propri della lotta di classe (lo sciopero generale, le manifestazioni di massa) e fornita di un programma di liberazione nazionale che, mentre porta avanti i compiti classici della rivoluzione borghese (indipendenza nazionale, lotta all’assolutismo, diritti democratici e liberali, riforma agraria, …), spezzi anche il legame con l’oppressione del capitalismo internazionale nazionalizzando l’economia, la produzione e le risorse e ponendole sotto il controllo democratico dei lavoratori.
Negli ultimi anni sono fiorite mille teorie che hanno cercato di spiegarci come il conflitto capitale-lavoro fosse solo una tra le tante contraddizioni e non più la principale. La realtà tuttavia è ben diversa. I lavoratori restano il motore principale della lotta contro il capitalismo non per una qualche “ragione sentimentale” ma a causa del posto particolare da loro occupato nella società: senza il loro consenso nulla si muove e niente si produce. Questa teoria ha ricevuto una brillante conferma con l’esperienza della rivoluzione russa del 1917. Tuttavia, nella storia non sempre le teorie si sviluppano in maniera “chimicamente pura”. Come giustamente osservava Lenin, “la storia conosce ogni genere di trasformazioni”. Un approccio dialettico ci permette di capire che se in questi paesi manca una direzione politica marxista, un partito rivoluzionario, allora l’azione delle masse può condurre il processo ad assumere caratteristiche differenti da quelle classiche. Ciò è accaduto nel mondo arabo dove alla testa dei movimenti rivoluzionari di massa si pose non il proletariato organizzato in modo autonomo, ma settori della piccola e media borghesia e, più spesso, pezzi dei vari eserciti6 che entrarono presto in rotta di collisione con l’imperialismo e il capitale straniero.
Questi leader nazionalisti borghesi dovettero appoggiarsi alla classe operaia per portare avanti i loro progetti, anche se i lavoratori avevano un ruolo marginale, dipendente, fungendo da supporto passivo all’azione di guerriglie, eserciti, ufficiali. In alcuni casi (Siria e Yemen) il processo fu spinto fino all’abbattimento del capitalismo. Tuttavia, queste furono solo versioni “caricaturali” della rivoluzione permanente. Come abbiamo già spiegato, pur avendo ottenuto l’indipendenza politica, le economie di questi paesi continuavano a restare dipendenti; per risolvere quest’impasse, che non permetteva lo sviluppo delle forze produttive e quindi il libero sviluppo dell’economia, della tecnologia, della società, le direzioni rivoluzionarie dell’esercito o della guerriglia scelsero la strada dell’esproprio completo della borghesia. Ma questi sviluppi, pur essendo un notevole passo in avanti, non rappresentavano la nascita di regimi di autentica democrazia operaia. Il potere politico non era infatti nelle mani dei lavoratori, ma concentrato nelle direzioni guerrigliere e/o nella burocrazia del nuovo Stato. Come poi vedremo nel caso dello Yemen, tutto ciò facilitò la costituzione di caste burocratiche privilegiate non sottoposte al controllo dei lavoratori e dei contadini. Nella maggior parte dei paesi arabi, comunque, la rivoluzione non uscì dal quadro dei rapporti sociali ed economici propri del capitalismo, anche se le varie direzioni si fecero promotrici di importanti nazionalizzazioni. Eppure le dimensioni di massa del movimento, il suo carattere rivoluzionario e la presenza di forti partiti comunisti costituivano fattori oggettivi che avrebbero potuto condurre ad esiti differenti.
Per poter comprendere l’evoluzione dei processi che seguirono alle rivoluzioni nel mondo arabo è dunque indispensabile cercare di capire il ruolo svolto non solo dal nazionalismo, ma anche dai vari partiti comunisti. Per far ciò prenderemo in considerazione alcuni avvenimenti sviluppatisi negli anni ’50-’60. A questi va aggiunto il caso della guerra di liberazione in Algeria, ampiamente trattato nell’articolo di Francesco Giliani, in questa stessa rivista.
La rivoluzione in Egitto: Nasser e l’ideale pan-arabo
L’esempio più lucido di come anche nei paesi arabi le borghesie nazionali non possano svolgere alcun ruolo progressista ci viene offerto dalla situazione esistente in Egitto prima della rivoluzione del 1952. La borghesia egiziana traeva vantaggi economici dalla sua dipendenza dal capitale britannico e il suo partito storico, il Wafd, si schierò apertamente con Londra nel corso della seconda guerra mondiale. I sentimenti delle masse erano invece decisamente antibritannici. Non essendoci un partito rivoluzionario pronto a farsi portavoce di queste istanze,7 il malcontento della popolazione venne raccolto da vasti settori dell’esercito. Nell’esercito, molti giovani ufficiali, pur non sostenendo il nazifascismo, speravano in una disfatta britannica per cogliere l’occasione che avrebbe permesso di cacciare una volta per tutte gli inglesi dall’Egitto.
Il 26 gennaio 1952 un milione fra operai e contadini scendevano in piazza per protestare contro la monarchia corrotta e semifeudale del re Farouk. L’ala più avanzata del movimento nazionalista si sentì incoraggiata dalla mobilitazione popolare e il 23 luglio, sotto la guida del colonnello Nasser, un gruppo di “Ufficiali liberi”, come si autodefinirono, uscì dalle caserme e con un colpo di Stato, sostanzialmente pacifico, depose la monarchia segnando l’inizio della rivoluzione democratico-borghese in Egitto.
Gli “Ufficiali liberi” lanciarono un ambizioso programma di industrializzazione del paese, ma la borghesia locale si mostrò immediatamente indifferente, se non ostile, ai progetti di Nasser. Ciò spinse Nasser a cercare il sostegno dei lavoratori per consolidare il consenso sociale attorno al suo governo e ai suoi progetti politici e a tale scopo promulgò una serie di riforme sociali (garanzie contro il licenziamento, giornata lavorativa di 7 ore, assicurazione contro malattie ed infortuni, etc.). Tuttavia, il supporto dei lavoratori doveva essere passivo e, nel tentativo di neutralizzare una loro eventuale azione indipendente, accolse fino al 1958 il Partito comunista all’interno dell’apparato statale, dopo aver fatto giurare ai suoi dirigenti che non avrebbero più svolto “attività politiche”.
In politica estera nei primissimi anni Nasser agì nell’illusione di poter convincere l’imperialismo Usa ad impegnarsi nel progetto di sviluppo del capitalismo egiziano. Nella prima metà del 1956 il progetto di costruire una diga sul Nilo – che avrebbe permesso di creare un’enorme fonte di energia e che avrebbe fatto aumentare la superficie delle terre coltivabili – fu oggetto di una lunga contrattazione con gli Usa e la Gran Bretagna. L’imperialismo finì col negare l’assistenza tecnica e finanziaria definendo il progetto non redditizio e concorrenziale alla produzione occidentale. In tutta risposta, Nasser decise di nazionalizzare la compagnia privata (con capitale prevalentemente britannico) che amministrava il canale di Suez per poter così ricavare gli utili necessari alla costruzione della diga. Fu una decisione dettata da esigenze di carattere economico, ma che al tempo stesso ebbe un significato decisamente antimperialista.
Questi eventi furono percepiti in tutto il mondo arabo come un passo fondamentale verso la liberazione e la riunificazione araba e segnarono un punto di svolta: la Siria si federò con l’Egitto formando la Rau (Repubblica araba unita), le masse arabe erano pronte a travolgere i confini tracciati arbitrariamente dalle potenze europee e sulla spinta dell’entusiasmo popolare per la nazionalizzazione del canale di Suez e il fallimento dell’aggressione militare di Gran Bretagna, Francia e Israele, il regime nasseriano cominciò a creare gruppi di pressione in Iraq, Libano, Tunisia, Arabia Saudita, Kuwait. Il progetto pan-arabo, di unificazione araba, andava direttamente a scontrarsi con gli interessi dell’occidente che chiuse le porte dei rapporti economici diretti. Questa decisione accentuò l’orientamento antimperialista di Nasser spingendolo a consolidare i rapporti con l’Urss che già nel 1955 aveva cominciato a fornire materiale militare e che poi aveva finanziato la costruzione della diga sul Nilo. Tuttavia, l’avvicinamento all’Urss non era certamente nei piani dei dirigenti del regime egiziano e che Nasser e i suoi si muovessero a tentoni era dimostrato dal fatto che in poco meno di cinque anni passarono da un orientamento filo-Usa ad una collaborazione con l’Urss.
Tutto ciò è spiegabile con il fatto che i progetti di Nasser, aldilà delle alleanze che di volta in volta si trovava a stringere, erano quelli di conquistare la maggior libertà di manovra possibile fra i due blocchi, a vantaggio dello sviluppo capitalistico nazionale. In ogni caso, l’avvicinamento all’Urss non impedì certo l’avvio nel 1958 della persecuzione anticomunista da parte del regime. Nasser, approfittando del consenso politico accumulato, tentò di sferrare un colpo mortale al movimento comunista dei paesi arabi, la cui influenza continuava a crescere, principalmente in Siria e in Iraq. Centinaia di militanti – molto ben conosciuti poiché collaboravano nella loro maggioranza con il governo – vennero catturati e spediti nei campi di internamento. La rete non veniva gettata solo sui comunisti, ma su ogni specie di uomini di sinistra, questi ancora più pericolosi perché non schedati. Dopo la soppressione dei partiti, fu organizzato un partito unico, l’Unione socialista araba, strumento che serviva ad irreggimentare la popolazione. La demagogia socialista crebbe a dismisura e addirittura nel programma politico dell’Unione socialista si dichiarava di far proprio il “socialismo scientifico” adattandolo alla realtà dei paesi arabi. Tuttavia, come abbiamo visto, il programma degli “Ufficiali liberi”, dietro la parola “socialismo arabo”, nascondeva il progetto di sviluppare un’industria e un’economia capitalista locale libera dal giogo dell’imperialismo e ciò rende comprensibile la preoccupazione mostrata dal regime nel soffocare qualsiasi struttura operaia indipendente, Pc compreso, allo scopo di poter procedere più agevolmente alla realizzazione del suo “sogno”. Ma il “sogno” nasseriano poteva svilupparsi pienamente solo sulla base di un mercato molto più vasto di quello egiziano e ciò spiega l’annessione della Siria. La borghesia egiziana, aiutata dalla chiusura delle importazioni occidentali e dall’allargamento del mercato, cominciò a fare enormi profitti. Un’enorme quantità di investimenti venne utilizzata dall’apparato statale per sviluppare un industria sempre più moderna. Tuttavia, questi tentativi non ebbero l’effetto desiderato. Nel 1961, in seguito ad un colpo di Stato, la Siria si ritirò dalla federazione. L’economia egiziana cominciò ad entrare in uno stato di impasse dovuto sia all’impossibilità di trovare sbocchi per le proprie merci che all’arretratezza tecnologica. L’illusione di poter trasformare l’Egitto in potenza capitalista si arenava di fronte ai limiti imposti dalla storia e dall’imperialismo. Per difendere e accrescere i patrimoni e i privilegi accumulati nel giro di pochi anni all’interno dell’apparato statale, Nasser cominciò ad attaccare la classe operaia egiziana erodendo i salari e le riforme concesse in precedenza. Ovunque scoppiarono scioperi e rivolte contadine. Riapparve la lotta di classe e il protagonismo delle masse che gli “Ufficiali liberi” sognavano di eliminare. Gli ultimi anni del dominio di Nasser sono caratterizzati dall’uso dell’esercito per reprimere ogni germe di opposizione nelle fabbriche e nelle campagne. La morte di Nasser nel 1970 segnò l’abbandono del progetto di un capitalismo nazionale indipendente e la borghesia egiziana, ansiosa di cambiare strategia e di farla finita con una pericolosa demagogia socialista, inaugurò una nuova e più sicura politica di avvicinamento all’imperialismo Usa.
La rivoluzione repubblicana in Libia
Una rivoluzione paragonabile, per alcuni aspetti, a quella egiziana è certamente la rivoluzione che segnò la fine della monarchia libica. Anch’essa fu condotta da un gruppo di ufficiali, sotto la guida del colonnello Gheddafi, nel 1969. Il nuovo regime chiese la restituzione delle basi straniere ed avviò una politica di nazionalizzazione dell’economia e, parzialmente, anche dell’industria petrolifera. Riprendendo l’ideale pan-arabo, Gheddafi nel 1974 proclamò l’unione con la Tunisia e nel 1982 propose la fusione con Algeria e Siria, progetti che però non ebbero mai veramente inizio. Al pari di Nasser, Gheddafi considerava il “socialismo marxista” non adatto alla società araba e si pose alla ricerca di una “terza via” o di una “via islamica al socialismo” e prevedeva la riorganizzazione del governo sotto forma di comitati popolari, secondo il principio del “passaggio del potere alle masse”, organismi che tuttavia non godevano di alcun effettivo potere decisionale. Una fraseologia e una retorica che serviva come schermo ideologico per confondere i lavoratori, soggiogarli paternalisticamente ed imporre alla classe operaia aumenti di produttività in nome dell’interesse del “popolo lavoratore” apparentemente proprietario dei mezzi di produzione nazionalizzati. In realtà, anche Gheddafi si muoveva lungo la linea dell’industrializzazione accelerata della Libia e se questo, in un primo momento significò assumere una posizione antimperialista, analogamente al caso dell’Egitto nasseriano, non voleva dire, in alcun modo compiere una politica di classe a favore dei lavoratori e dei contadini. Così anche l’ideale dell’unità araba era per Gheddafi, più che una convinzione politica, uno slogan attraverso cui ingraziarsi il favore delle masse. Sono note, infatti, le espulsioni di massa di lavoratori egiziani e tunisini e del rappresentante dell’Olp decretate dal governo libico, il sostegno offerto alla controrivoluzione in Sudan nel 1971 e l’aggressione militare al Ciad. D’altra parte non è difficile osservare che, una volta mutati gli equilibri politici ed economici internazionali, Gheddafi abbia conseguentemente modificato la sua posizione nei confronti dell’imperialismo, a condizione di poter salvare il regime bonapartista di cui era a capo.
Iraq 1958: la rivoluzione “incompiuta”
Nel 1921 l’imperialismo britannico impose allo stato artificiale dell’Iraq il re Faisal, un monarca che, nelle parole dell’allora ministro degli esteri britannico, doveva “regnare senza governare”. Questo provocò un’ondata di ribellione di massa in tutto il paese nel corso degli anni ’20. Nel tentativo di arginare questo movimento, nel 1930 la Gran Bretagna modificò la forma del proprio rapporto di dominazione concedendo all’Iraq una forma di “indipendenza” che tuttavia, come ebbe a sostenere Winston Churchill, permetteva ancora il controllo effettivo del petrolio e delle altre risorse economiche del paese da parte degli inglesi. D’altra parte l’imperialismo britannico continuava a conservare in Iraq importanti basi militari e poteva contare su un uomo di fiducia: il primo ministro Nuri al Sa’id. La protesta del popolo iracheno, in ogni caso, non si arenò di fronte a questa farsa e il Partito comunista, fondato nel 1934, divenne una forza di massa.
Il processo rivoluzionario apertosi in Iraq non assumeva un carattere unicamente politico, per l’indipendenza nazionale, ma di vera e propria rivoluzione sociale. Il potere, dentro una cornice apparentemente tribale, era nelle mani dei grandi proprietari fondiari e da questi diviso con una ristretta cerchia di mercanti e con l’élite militare, per lo più non autoctona. Si trattava di non più di cinquanta famiglie capeggiate da sceicchi e capi tribù e raccolti attorno al Re, quella stessa classe che deteneva il potere sin dalla caduta dell’impero abbaside e con cui gli inglesi avevano continuato a fare buoni affari. Accanto a questi sceicchi si situavano i sadah e gli ashraf, cosiddetti discendenti del profeta, una casta clericale che controllava i santuari. La struttura economica era caratterizzata da rapporti di proprietà di tipo feudale che vedevano l’1 per cento della popolazione possedere più del cinquanta per cento delle terre mentre i quattro quinti dei contadini erano senza terra. Anche nelle città la ricchezza era concentrata nelle mani di ricchi mercanti che controllavano quasi il sessanta per cento dell’intero capitale privato.
Nel gennaio del 1948 il Pc organizzò la più grande manifestazione nella storia della monarchia irachena: l’insurrezione di Al-Wathbah. Il movimento fu incendiato dalle mobilitazioni studentesche per poi coinvolgere i lavoratori e i contadini che occuparono la terra in molte zone del paese. Decine di migliaia di persone si riversarono nelle strade e nelle piazze delle principali città dando vita ad enormi manifestazioni. Il 27 gennaio la repressione della polizia uccise quattrocento persone, ma la protesta non si fermò. L’allora Primo ministro fu costretto a fuggire in Inghilterra e venne formato un nuovo governo. Nel mese di maggio una nuova ondata di repressione mise fine alle proteste con la dichiarazione della legge marziale, ma il colpo finale il Partito comunista lo ricevette quando l’Urss decise di riconoscere il nuovo Stato di Israele nel luglio del 1948: ciò allontanò dalla militanza migliaia di attivisti di sinistra scandalizzati da questo episodio. Nel 1955, scosso dalla crisi di Suez e dall’impatto in tutta la regione della svolta a sinistra del regime egiziano di Nasser, l’imperialismo tentò di utilizzare la monarchia irachena per contenere la minaccia posta dal nasserismo. Gli Usa e la Gran Bretagna cercarono di stabilire un “Patto di Baghdad” delle monarchie e dei regimi fantoccio, sul modello della Nato. Vennero quindi inviate truppe inglesi in Giordania e i marines in Libano. L’ordine di spostare truppe irachene verso la Giordania provocò la reazione delle masse e aprì la strada alla rivoluzione irachena del 1958. L’esercito si ammutinò e invece di dirigersi verso la Giordania marciò sul palazzo reale. Il re, il principe ereditario e il primo ministro vennero linciati.
Il nuovo governo guidato dal generale Kassem iniziò la demolizione della precedente struttura feudale e si servì di una fraseologia rivoluzionaria che definiva l’Iraq una “repubblica socialista”. Tuttavia, l’offensiva contro i privilegi dei capitalisti fu solo parziale. La Compagnia petrolifera irachena (Ipc), per esempio, venne consegnata nelle mani di quattro compagnie: una britannica, una francese, una olandese e una statunitense. Nonostante l’introduzione, sotto la pressione delle masse, di riforme nel campo della salute e dell’educazione, la situazione nelle campagne continuava ad essere insostenibile dal momento che la riforma agraria varata, non prevedendo la collettivizzazione della terra e il finanziamento per l’acquisto di nuovi macchinari, non risolse nessuno dei problemi principali. Masse di contadini impoveriti furono costretti a lasciare le campagne per recarsi nelle città in cerca di lavoro.
Nel 1961 i curdi rivendicarono l’autonomia e il controllo dei pozzi petroliferi nel nord del paese. Kassem si rifiutò e inasprì il suo regime reprimendo l’attività politica del Partito democratico curdo, del Partito comunista e del Ba’ath.8 Inoltre, il presidente iracheno non esitò a ricorrere al terrore per stroncare ogni forma di rivendicazione economico-sociale dei sindacati. Sarebbe stato il momento migliore per i comunisti per chiamare una seconda rivoluzione.9 In una manifestazione del Pc oltre un milione di persone scese in piazza per chiedere di fatto ai comunisti di prendere il potere. Ma sotto il consiglio e l’ordine di Nikita Kruscev, presidente dell’Urss, il Pc iracheno non andò fino in fondo. Se il Partito comunista iracheno, che nel frattempo sotto l’azione delle giovani generazioni si era riorganizzato ed era divenuto nuovamente la più forte organizzazione politica nel paese, avesse fatto un appello per il controllo operaio dell’industria del petrolio, la distribuzione della terra ai contadini, l’autodeterminazione del popolo curdo, questo avrebbe permesso all’Iraq di diventare l’avanguardia di un movimento contro il latifondismo e il capitalismo in tutta la regione. Sarebbe stato l’inizio della rivoluzione socialista in tutti i paesi arabi.
Il carattere bonapartista del regime di Kassem si fece sempre più marcato. Nel giro di alcuni mesi tessé una ragnatela di alleanze politiche che in poco tempo egli stesso cercò di disfare. Questo atteggiamento era dovuto al sempre più esiguo consenso sociale che vi era attorno all’ex-colonnello, situazione che lo spingeva a compiere scelte empiriche, dettate non da un punto di vista ideologico, ma unicamente dallo scopo di conservare il potere. Nel 1963 un colpo di stato militare mise fine al governo di Kassem. Si chiudeva così la rivoluzione irachena del ’58, evento formidabile per ampiezza, potenza e radicalità e che è stato il punto più alto mai raggiunto dalla rivoluzione in Medio Oriente.
Il Partito Ba’ath in Siria e in Iraq
Il Ba’ath (Partito della rinascita araba) venne fondato nel 1943 da un gruppo di intellettuali siriani che affermavano l’idea di costruire una comunità nazionale araba il cui fondamento fossero innanzitutto la lingua e la cultura arabe e non la religione mussulmana. Il nazionalismo doveva in sostanza prendere il posto dell’Islam, trasformandosi in una versione laica dello stesso, e contemporaneamente contrapporsi al comunismo: “Gli arabi non sono una piccola nazione che possa accettare un messaggio nato nelle condizioni particolari dell’Occidente”. Il Ba’ath dunque si presentò come un movimento nazionalista con un programma esplicitamente laico per certi aspetti simile ad altri partiti come l’Istiqlal marocchino e il Neo-destur tunisino. Durante e subito dopo la guerra il baathismo trovò appoggi tra i giovani della piccola borghesia appartenenti a minoranze religiose e culturali, soprattutto tra cristiani di rito greco, alawiti e drusi che non a torto consideravano le classi dominanti semi-feudali musulmane sunnite responsabili dell’asservimento all’imperialismo. Nei primi anni ’50 settori del Ba’ath cominciarono a definirsi demagogicamente “socialisti” e indirizzarono la loro attenzione verso l’Unione Sovietica: in una sorta di variante terzomondista del giacobinismo europeo, la rivoluzione, non trovando una borghesia disposta ad abbattere le strutture feudali esistenti, doveva essere portata avanti poggiandosi sugli strati popolari, lavoratori e contadini, e cercando un modello sociale (quello dell’Urss appunto) su cui edificare l’indipendenza nazionale. Fu questa la conclusione a cui giunsero presto alcuni fra i baathisti siriani. Questa conclusione, come vedremo fra breve, fu gravida di conseguenze per il futuro del Ba’ath, all’interno del quale cominciarono a delinearsi diverse correnti politiche.
Nel frattempo il baathismo cominciava a far breccia nell’esercito siriano e ad estendere la propria influenza oltre i confini della Siria e in particolare in Giordania e in Iraq. Nel 1956 il Ba’ath si impegnò a fondo nella campagna per l’unione fra Siria ed Egitto. Questa scelta corrispondeva all’obiettivo dell’unità araba, ma anche a un interesse più immediato: causare difficoltà al Partito comunista siriano la cui influenza, sul piano sociale ed elettorale, cresceva impetuosamente. D’altra parte il Pc, su comando di Mosca, si dichiarò avverso al progetto di unificazione dei due paesi (sono rimaste celebri le polemiche fra Nasser e Kruscev a proposito dell’unità araba), 10 facendosi così scavalcare a sinistra dal Ba’ath e alienandosi le simpatie delle classi popolari sinceramente entusiasmate dal progetto pan-arabo e da quanto Nasser stava realizzando in Egitto in chiave antimperialista. L’unificazione araba non aveva nulla di reazionario, al contrario era un progetto che tendeva ad eliminare confini fittizi e non poteva far altro che procurare grossi fastidi all’imperialismo e alla sue possibilità di penetrazione, ma permetteva anche di mobilitare le masse aprendo un processo i cui esiti avrebbero potuto andare anche oltre la rivoluzione democratica. Il grosso limite della proposta della Rau era certamente il fatto che essa non nasceva dal basso, ma rispondeva alle preoccupazioni del regime nasseriano intenzionato ad allargare il mercato per le proprie industrie.
Tuttavia, negare decisamente il valore dell’unità araba, così come fece il Pc siriano, non rispondere alle aspirazioni di progresso delle masse siriane, che prendevano forma attraverso il sogno della Rau, non permise successivamente al Pc di intervenire, aprendo delle contraddizioni a proprio favore, nella crisi che inevitabilmente si aprì dopo solo tre anni dalla nascita della federazione. La borghesia siriana, danneggiata dalle nazionalizzazioni di Nasser, cominciò ad agire clandestinamente contro la Rau con l’aiuto dei militari. Nel 1961 un colpo di stato militare ritira la Siria dalla federazione. Lo stesso Ba’ath prese parte al “putsch” mostrando di avere a cuore i profitti della classe che difendeva più che l’ideale per cui era nato. Il sogno dell’unità araba svaniva e un diverso atteggiamento del Pc sul tema della federazione avrebbe potuto svelare agli occhi delle masse la vera natura del baathismo.
Nel 1963 il Ba’ath giunge al potere in Siria, fonda la Guardia nazionale, suo braccio armato, e comincia una serie di limitate nazionalizzazioni. Come abbiamo visto, già durante la breve parentesi della Rau le nazionalizzazioni avevano provocato scontento fra le fila della borghesia siriana. Eppure la modernizzazione della Siria lo richiedeva: la debolissima borghesia siriana, dipendente anch’essa dal capitale straniero, non possedeva le risorse per gli investimenti necessari. Una contraddizione che andava risolta! Inevitabilmente le divergenze interne al partito si trasformarono rapidamente in scontro aperto fra la dirigenza al governo del paese e l’ala di sinistra che guardava all’Urss stalinista come modello da imitare. Quest’ultima, particolarmente forte all’interno dell’esercito, ebbe il sopravvento. Nel 1966 la sinistra del Ba’ath prende il potere, espelle i dirigenti del periodo precedente, stringe i rapporti con l’Urss e, soprattutto, espropria completamente la borghesia, nazionalizzando l’intera economia del paese. Il regime di cui la sinistra del Ba’ath iniziò la costruzione viene definito dal marxismo come regime di bonapartismo proletario, ovvero un regime in cui il capitalismo viene abolito, ma dove i lavoratori sono sottoposti ad una nuova tirannia nella forma di una burocrazia totalitaria. Ovviamente questo regime non aveva nulla a che vedere con il socialismo. Anche se in Siria vennero stabiliti nuovi rapporti sociali e non esisteva più la struttura economica del capitalismo, ciò che mancava era un sano regime di democrazia operaia, delle strutture simili ai soviet (consigli dei lavoratori e dei contadini) che nei primi anni dell’Urss, prima della degenerazione stalinista, controllavano la produzione e decidevano democraticamente su ogni aspetto fondamentale della vita collettiva.11 Significativo il fatto che la sinistra del Ba’ath non sia giunta al potere sull’onda di una mobilitazione popolare, ma solo in seguito a lotte interne tra correnti del partito; il proletariato e i contadini erano assolutamente immobili ed erano chiamati a dare solo un sostegno passivo; nessun appello per un riorganizzazione democratica e dal basso della vita politica venne rivolto ai lavoratori, segnali anche questi dell’impostazione paternalistica ed autoritaria del nuovo regime. Segno del nuovo corso in Siria è anche il ritorno dall’esilio del segretario del Partito comunista, illegale dal 1958. Tuttavia, i comunisti siriani non avranno nulla da dire riguardo all’oppressione burocratica che il regime di Damasco riservava alle masse siriane.
Nel frattempo il Ba’ath era salito al potere anche in Iraq. L’impasse in cui venne a trovarsi il regime di Kassem fu risolto da un golpe militare organizzato dal Ba’ath e da un gruppo di ufficiali nazionalisti nel 1963. Fu nominato Presidente della Repubblica Aref, generale nazionalista. Immediatamente venne scatenata una feroce repressione nei confronti delle forze fedeli a Kassem e in particolare nei confronti dei comunisti, rimasti suoi alleati nonostante l’atteggiamento altrettanto ostile riservato loro dall’ex-presidente. Il nuovo regime, tuttavia, era tutt’altro che solido. La possibilità di fusione con la Siria contrapponeva il Ba’ath ai nazionalisti di Aref. La prospettiva unitaria poteva sembrare valida: il Ba’ath condivideva il potere con i nazionalisti a Baghdad e governava da solo a Damasco. Tuttavia, ad opporsi al progetto di fusione furono proprio i baathisti iracheni: mentre la corrente del Ba’ath che si era insediata a Damasco era quella moderata (è il 1963), in Iraq ad essere maggioritaria era la corrente genericamente di sinistra.
I baathisti moderati di Baghdad chiesero l’intervento dei dirigenti siriani per sconfiggere l’ala “dura” del partito. Aref approfittò di questa divisione interna al Ba’ath e, con l’aiuto dell’esercito, riuscì a concentrare tutto il potere nelle sue mani. In seguito alla limitazione dei profitti delle multinazionali, con la nazionalizzazione delle banche (1964) si cominciò a parlare pomposamente di “socialismo iracheno”. Intanto Aref si liberava anche dei suoi vecchi legami con il Ba’ath: il partito veniva messo fuorilegge e alcuni suoi leader incarcerati. Il suo regime cominciò a basarsi solo ed esclusivamente sull’esercito, minando quindi anche la sua base sociale. Infatti, l’ascesa al potere del Ba’ath verrà solo rimandata fino al 1968 quando il leader del partito baathista Al Bakr organizza un golpe sfruttando l’impopolarità di Aref che è accusato di corruzione e di non aver voluto prender parte alla “guerra dei sei giorni” contro Israele.
Il nuovo regime, guidato dalla corrente moderata del baathismo, si rivolgeva alla mobilitazione popolare, ma non si fidava di essa, diffidava anzi dell’organizzazione democratica dei contadini e degli operai, il principale lascito della rivoluzione del ‘58. Proprio per disinnescare qualsiasi tipo di coinvolgimento indipendente dei settori popolari nel 1973, il Ba’ath forma un Fronte nazionale con l’adesione del Partito comunista, integrandolo e neutralizzandolo, e contemporaneamente rafforza l’apparato statale.
Nonostante la sua natura bonapartista, il regime portò avanti l’iniziativa modernizzatrice: nazionalizzò completamente l’industria petrolifera (Ipc), confiscò senza indennizzo le terre dei latifondisti, che i precedenti governi non avevano ancora eliminato, elettrificò il paese, introdusse misure di sostegno sociale ai lavoratori e aumentò i loro salari, sviluppò un moderno ed efficiente sistema sanitario e scolastico. Tuttavia, nonostante lo sviluppo delle forze produttive e le riforme varate, il capitalismo non venne abbattuto. Il regime, consolidandosi come dittatura bonapartista, degenerò velocemente: dilagava un’abnorme e nepotistica corruzione, una cricca al potere godeva di privilegi enormi mentre i lavoratori veniva sfruttati nelle fabbriche per 10-12 ore al giorno, allo scopo di aumentare la produzione. Le entrate petrolifere, grazie all’enorme incremento della produzione, aumentarono per tutti gli anni ’70, ma tali ricavi finirono in gran parte in armamenti soffocando lo sviluppo. I curdi a partire dal 1975 ripresero la lotta contro il governo oppressore dopo la breve tregua del trattato del 1970. Nel 1979, salito al potere Saddam Hussein, la corrente di cui egli era a capo ingaggiò una battaglia nel Ba’ath per eliminare le correnti di sinistra nel partito e, a completamento di questa, l’anno successivo promosse una gigantesca purga fra la direzione del partito (Saddam dichiarerà in seguito di essersi ispirato ai metodi di Stalin). Venne eliminata ogni opposizione interna al paese e i sindacati del petrolio vennero messi fuori legge. Le contraddizioni di un giacobinismo arrivato troppo tardi sulla scena della storia, si rivelarono in tutta la loro drammaticità: il partito Ba’ath degenerò trasformandosi in una casta militare nella quale spiccava la polizia politica, l’economia statale ricominciava ad essere privatizzata, e il progetto del socialismo panarabo veniva completamente abbandonato.12 Nel 1980 Saddam accetta di essere armato e finanziato dagli Usa, preoccupati dalla vittoria della “rivoluzione islamica” in Iran, e dichiara guerra al regime di Khomeini. Gli Usa forniscono al dittatore iracheno stivali, uniformi, elicotteri, munizioni, apparecchiature elettroniche ecc.. Inoltre il programma “top secret” istituisce una consulenza militare permanente fra sessanta esperti militari del Pentagono e l’esercito di Saddam (fonte: Liberazione 20-8-02).
Ma la facile vittoria che si sperava a Washington e a Baghdad non si verifica. Anzi è l’Iran che dopo una serie di sconfitte iniziali passa al contrattacco e se non fosse per l’entrata diretta degli Usa nella guerra (nel 1987 la flotta americana è coinvolta direttamente nei combattimenti!) l’Iraq sarebbe quasi certamente sconfitto e occupato dai soldati di Khomeini. La pace viene firmata solo nel 1988, dopo la morte di un milione di persone.
La spinta progressista iniziale del Ba’ath diventa ormai irriconoscibile. Il sogno di fondazione di un capitalismo forte e di una nazione moderna ed indipendente si insabbia nuovamente. La missione “modernizzatrice” del Ba’ath iniziata nel 1968 porta come risultato un impoverimento di massa reso ancora più esasperato dalle continue aggressioni imperialiste seguite alla prima guerra del golfo e da dodici anni di un embargo che colpirà le famiglie irachene (un milione e mezzo morti) e non intaccherà il dominio del dittatore, fino alla caduta, per mano degli imperialisti, del 9 aprile 2003, avvenimento che ha aperto una nuova fase di instabilità e di convulsioni sociali e politiche in tutto il Medio Oriente.
La rivoluzione yemenita
La lotta armata fu lo strumento utilizzato nello Yemen del Sud per ottenere l’indipendenza nazionale. La rivolta scoppiò nelle montagne del protettorato nel 1963 e fu guidata dal Fronte di liberazione nazionale. I sovrani e i latifondisti del territorio rurale furono travolti dalla guerriglia. L’imperialismo britannico fu così costretto a ritirarsi e nel novembre del 1967 venne proclamata la Repubblica popolare dello Yemen del Sud. Il programma politico del Fln prevedeva l’abolizione del latifondo, la diversificazione della produzione agricola e lo sviluppo industriale. Tuttavia, la nuova Repubblica nasceva in condizioni molto difficili. La crisi economica dovuta alla chiusura del canale di Suez, in seguito alla guerra arabo-israeliana, e alla partenza della guarnigione britannica creò uno stato di impasse e l’emergere di tensioni interne al Fln. Questa situazione fece schierare immediatamente la borghesia e la piccola-borghesia yemenita dalla parte della controrivoluzione e, con l’aiuto dell’Arabia Saudita, venne organizzata una azione militare contro il nuovo governo insediatosi ad Aden, capitale dello Yemen del Sud. In queste condizioni emerge l’ala sinistra del Fln guidata da Salem che destituisce il governo in carica e rende velleitaria qualsiasi tipo di controffensiva della borghesia nazionalizzando l’intera economia del paese.
Allo scopo di eliminare il feudalesimo e il latifondismo si rese dunque necessaria, nello stesso tempo, l’eliminazione di quegli elementi di capitalismo che cominciavano a comparire nello Yemen. Lo Yemen del Sud si proclamò Stato “marxista”, ma si trattava in realtà, come nel caso della Siria, di un regime di bonapartismo proletario sulla base dei modelli statuali cubano e cinese. Ciò avvenne principalmente perché la battaglia condotta dai “sinistri” del Fln yemenita si poggiò sui militari e sull’esercito lasciando passivi i lavoratori e i contadini.
I marxisti si basano sui lavoratori non per qualche motivazione arbitraria, ma proprio perché solo il protagonismo della classe operaia organizzata può realizzare la trasformazione della società in senso socialista. Un abbattimento del capitalismo per via guerrigliera o attraverso l’esercito può portare ad un cambiamento politico e sociale ma non ad uno Stato operaio sano. In ogni caso, i grossi benefici portati dall’eliminazione del latifondismo e del capitalismo erano evidenti se si paragonavano le condizioni di vita dei lavoratori e dei contadini dello Yemen del Sud con quelle di altri Stati della regione. A Gibuti, per esempio, l’ottanta per cento della popolazione era in stato di disoccupazione, fenomeno del tutto inesistente invece nello Yemen. Tuttavia, il deficit di democrazia operaia e l’isolamento di uno Stato povero e tecnologicamente arretrato circondato da regimi semi-feudali ad esso ostili come l’Arabia Saudita e l’Oman, creò le condizioni per lo stratificarsi di una casta di burocrati simile a quelle di altri Stati operai deformati come l’Urss, la Cina e Cuba.
Lo scrittore Fred Halliday, che aveva osservato di persona gli eventi rivoluzionari nello Yemen scrivendo un libro su di essi, aveva notato alcuni cambiamenti nella vita sociale e nelle condizioni di vita dei dirigenti dello Stato yemenita durante una visita nel 1979. Egli scrisse: “Ad Aden gli alti ufficiali di partito hanno accumulato privilegi materiali nella forma di accesso esclusivo a beni di lusso e il potere dell’esercito è diventato di gran lunga più elevato.” All’inizio degli anni ’80 Nasser Mohammed, capo dello Stato, in accordo con l’Urss che temeva lo sviluppo della rivoluzione nello Yemen del Nord, nell’Oman e nell’Arabia Saudita, tolse ogni forma di sostegno ai movimenti rivoluzionari dei paesi circostanti e cercò di giungere ad un compromesso con lo Stato teocratico dello Yemen del Nord. Chi fra i dirigenti del Partito socialista dello Yemen, il partito unico del regime, cercò di contrastare tale linea politica, cadde vittima delle purghe di Nasser Mohammed: pene capitali e veri e propri omicidi decapitarono la burocrazia del partito. Tuttavia Nasser Mohammed fallì nel tentativo di eliminazione di tutti i suoi rivali e non poté evitare lo scoppio della guerra civile che iniziò nel 1986. La guerra contrappose due fazioni burocratiche e si concluse con la sconfitta di Nasser Mohammed, ma lo Stato dello Yemen del Sud si indebolì fatalmente e le truppe dell’esercito dello Yemen del Nord occuparono Aden.
Il ruolo dei Partiti comunisti
Il motivo per cui la rivoluzione nei paesi arabi ha assunto le forme storiche che abbiamo fin qui descritto, la ragione per cui non si è spinta oltre un carattere democratico-borghese o ha preso forme così distorte, come quella del bonapartismo proletario, è dovuta prevalentemente all’assenza di forti partiti marxisti. Che le condizioni oggettive ci fossero tutte, basti pensare alla mobilitazione e al fermento delle masse nella rivoluzione irachena o in quella algerina, è un fatto che non può essere negato. Tuttavia, la direzione dei processi fu assunta dal nazionalismo borghese a causa degli errori dei Partiti comunisti che abbandonarono il patrimonio teorico e politico accumulato dal marxismo a partire dalle rivoluzioni del 1848 fino alla rivoluzione russa. Purtroppo, lo stalinismo ha giocato un ruolo criminale nello sviluppo della rivoluzione nel mondo coloniale. La burocrazia stalinista, una volta consolidatasi al potere nell’Unione Sovietica, sviluppò idee fortemente conservatrici. Temendo che la rivoluzione in altri paesi avrebbe potuto svilupparsi su basi sane e così porre una minaccia al proprio dominio in Russia, ad un certo punto, cominciò ad agire attivamente per evitare la rivoluzione altrove. L’Internazionale comunista, ormai degenerata e assoggettata agli interessi di Mosca, rispolverò la vecchia teoria delle “due fasi”. Anziché seguire una politica di indipendenza di classe e guidare i lavoratori e i contadini verso la presa del potere, i Partiti comunisti dovevano ora cercare alleanze con la borghesia “progressista” e i settori “progressisti” dell’esercito. Allo scioglimento dell’Internazionale comunista, questa politica continuava a restare la bussola di orientamento dei diversi Pc, vere e proprie agenzie dei burocrati sovietici nel mondo. La teoria delle “due fasi” rappresentò una rottura sostanziale con il marxismo. Perfino nel 1848, ai tempi delle rivoluzioni borghesi in Europa, Marx ed Engels avevano già sostenuto che, se queste rivoluzioni non andavano fino in fondo, questo era dovuto principalmente al ruolo controrivoluzionario dei liberali e dei democratici borghesi che tanta influenza giocavano su un proletariato ancora giovane e non organizzato in modo indipendente.13 Anche il leninismo si affermerà proprio nella lotta contro il menscevismo che sviluppò la teoria delle “due fasi” come prospettiva per la rivoluzione russa. Era proprio dei menscevichi, infatti, lo scenario socialdemocratico “classico”, rigido e schematico, che prevedeva, in condizioni di arretratezza economica e politica, la collaborazione tra il movimento operaio e la borghesia liberale alla quale toccava la guida della rivoluzione. Conseguita la Repubblica democratica, la borghesia sarebbe stata al governo, mentre i socialisti si sarebbero organizzati all’opposizione aspettando le condizioni per una rivoluzione proletaria rimandata ad un futuro indefinito. Diversamente Lenin, in accordo con Trotskij, spiegò che la borghesia russa sarebbe stata assolutamente incapace di realizzare la democratizzazione dello Stato e non avrebbe appoggiato un movimento che avrebbe messo in discussione la proprietà terriera, ponendosi quindi dalla parte della controrivoluzione. L’unica classe che poteva guidare la rivoluzione secondo Lenin era la classe operaia alleata con i contadini. Solo una “Repubblica democratica degli operai e dei contadini”14 avrebbe potuto sviluppare velocemente i compiti della rivoluzione democratico-borghese in Russia e porre le basi per una transizione alla società socialista.15 Presupposto indispensabile restava l’indipendenza politica ed organizzativa del movimento operaio e per questo i bolscevichi spiegavano che “L’internazionale comunista deve concludere delle alleanze temporanee con la democrazia borghese delle colonie e dei paesi arretrati, ma non deve fondersi con essa e deve assolutamente salvaguardare l’indipendenza del movimento proletario perfino nella sua forma più embrionale” (Lenin, Risoluzioni dei primi quattro congressi dell’Internazionale comunista). Diversamente fecero i Partiti comunisti nei paesi arabi, applicando la formula delle “due tappe” (prima la rivoluzione democratica e l’indipendenza nazionale ed in futuro la rivoluzione socialista). Come abbiamo visto, in Egitto i comunisti sostennero Nasser arrivando ad integrarsi nell’apparato dello Stato egiziano, salvo poi essere espulsi e perseguitati dallo stesso Nasser quando nel paese cominciava ad emergere un’opposizione di classe. In Iraq, il disperato tentativo di un’alleanza con la borghesia nazionale portato avanti dal Pc condusse paradossalmente i comunisti a sostenere prima Kassem e successivamente il Partito Ba’ath proprio mentre Kassem e i baathisti dichiaravano illegale il Partito comunista e uccidevano centinaia dei suoi militanti. In Algeria, durante la guerra di liberazione, il Partito comunista arrivò addirittura a sciogliersi nel Fronte di liberazione nazionale. Le ragioni per cui i comunisti dovevano sostenere le rivoluzioni in Egitto e in Iraq, come anche quelle in Algeria, Siria, Yemen e in generale in tutti i paesi coloniali, sono evidenti. Si trattava di movimenti rivoluzionari che assestarono un colpo durissimo all’imperialismo, che sollevarono le masse e fecero avanzare la lotta di classe. Ma questo sostegno non implicava in nessun caso che il movimento operaio si legasse con la borghesia nazionale in generale.
L’unità dei paesi arabi può essere solo socialista!
La rivoluzione nei paesi ex-coloniali è permanente per due ragioni: primo, perché si spinge oltre i limiti democratici-borghesi ed assume un carattere socialista; secondo, perché inizia in un paese e poi continua a livello internazionale. Se così non fosse, la rivoluzione in uno di questi paesi non avrebbe vie d’uscita. Se i lavoratori e i contadini prendessero il potere in uno dei paesi arabi, l’imperialismo Usa non starebbe certo a guardare e organizzerebbe tutto il suo potere per distruggere la rivoluzione: dal sabotaggio economico all’intervento militare. Inoltre, sulle basi dell’arretratezza tecnologica ed economica che caratterizza questi paesi, si creerebbe inevitabilmente una cricca di privilegiati così come è avvenuto nella Russia sovietica rimasta isolata. Infatti, come spiegava già spiegava Marx: “Si socializzerebbe soltanto la miseria e quindi con il bisogno ricomincerebbe il conflitto e tornerebbe a galla tutto il vecchio ciarpame” (Marx, Engels, L’ideologia tedesca).16 L’unico modo in cui un Iraq o un Egitto rivoluzionario, per esempio, potrebbero affrontare i loro nemici sarebbe facendo un appello ai lavoratori di tutti i paesi arabi perché seguano il loro esempio. Questo appello non cadrebbe nel vuoto. Nelle masse arabe è ancora vivo infatti l’ideale dell’unità di tutti i popoli arabi, basti osservare quello che provoca e che ha provocato in termini di manifestazioni e di solidarietà di massa il massacro dei palestinesi o la guerra in Iraq in tutti i paesi del Medio Oriente. In Egitto durante le recenti manifestazioni antimperialiste avvenute nel corso della guerra all’Iraq, i cortei si concludevano con slogan contro gli attuali governi arabi, considerati non a torto i fiduciari locali dell’imperialismo, ed inneggianti a Nasser e al suo sogno di una nazione araba unita. Ma su basi capitaliste quest’idea resta un speranza vana come dimostra l’esperienza della Rau. La borghesia siriana preoccupata di perdere il proprio peso e i propri privilegi decise nel 1961 di farla finita con l’utopia nasseriana e con un colpo di stato ritirò la Siria dalla federazione. Le varie borghesie nazionali hanno sviluppato nel frattempo loro specifici interessi e particolari legami con il capitale straniero. Non permetterebbero quindi la realizzazione di un progetto politico che potrebbe rivolgersi a loro danno e quando cercano di ergersi a difensori dell’aspirazione all’unità, lo fanno sperando, in realtà, di poter allargare il loro mercato grazie ad una eventuale integrazione fra paesi, cosi come fu per la borghesia egiziana e per l’apparato statale nasseriano. Lo stesso Saddam Hussein riprese l’ideale pan-arabo, ma questo non lo trattenne dal massacrare curdi e sciiti e dal dichiarare una sanguinosissima guerra all’Iran. Sotto il capitalismo, il futuro delle popolazioni arabe è un futuro di divisioni, discordie e carneficine.
Negli ultimi tempi sembrerebbe che l’esasperazione sociale delle masse arabe abbia favorito l’ascesa del fondamentalismo islamico. Dobbiamo essere chiari su questo punto: se ciò accade è perché decenni di tradimenti e oscillazioni da parte dei partiti della sinistra araba hanno inevitabilmente indebolito le forze laiche e progressiste, compresi i partiti comunisti. Tuttavia, è anche vero che alcune situazioni vengono appositamente esagerate dalla propaganda borghese che vuole farci pensare ai paesi arabi come ad un mondo interamente nelle mani delle forze reazionarie ed oscurantiste per poi farci credere che la guerra di Bush non sia una guerra di classe, una guerra imperialista, ma una guerra di civiltà. I giovani e i lavoratori arabi impareranno presto, sulla base della loro esperienza, che il fondamentalismo islamico non offre loro alcuna via d’uscita, come testimonia quanto già ora sta avvenendo in Iran. L’azione delle masse, in realtà, preoccupa i leader islamici perché i loro progetti reazionari non corrispondono alle aspirazioni di progresso e benessere delle popolazioni. Come dimostra anche l’esperienza dei marxisti in Pakistan,17 i fondamentalisti possono essere sconfitti rompendo apertamente con le borghesie corrotte, abbandonando improbabili appelli ad un “ruolo dell’Onu”, offrendo un’alternativa di classe e rivoluzionaria, lottando per una Federazione socialista dei paesi arabi. Oggi, dopo il crollo dello stalinismo e dopo che i vari partiti nazionalisti come il Ba’ath sono stati ormai screditati, siamo sicuri che i lavoratori e i giovani arabi torneranno alle loro migliori tradizioni di lotta e seguiranno l’entusiasmante appello ai lavoratori che Marx ed Engels lanciarono all’indomani delle rivoluzioni del 1848: “Essi devono fare l’impossibile per la vittoria finale chiarendosi quali siano i propri interessi di classe, prendendo posizione come partito indipendente e non lasciandosi sedurre per un istante dalle frasi ipocrite della piccola borghesia democratica […] Il loro grido di battaglia deve essere: ‘Rivoluzione permanente’” (Marx, Engels, Indirizzo al Cc della Lega dei comunisti).
Note
1. Nel 1915 il governo britannico, nella persona dell’alto commissario in Egitto Sir MacMahon, avviò con lo sceriffo della Mecca Husein, una celebre corrispondenza in cui offriva l’indipendenza agli arabi in cambio di un aiuto militare contro la Turchia. Tuttavia, contemporaneamente la Gran Bretagna segretamente intavolò trattative con la Francia per arrivare di comune accordo alla spartizione di ciò che era stato promesso ad Husein. Gli inglesi spedirono aiuti, consiglieri (tra cui il noto Lawrence d’Arabia) e rifornimenti alla guerriglia araba che nel corso della Grande Guerra diede un valido contributo alla causa alleata con operazioni di sabotaggio e attacchi contro le guarnigioni turche. Alla fine della guerra, la Conferenza della pace realizzò l’accordo franco-britannico e ai figli di Husein, Faisal ed Abdallah, furono solo consegnati i regni dell’Iraq e della Transgiordania. Ma per conservare il potere essi non potevano fare a meno dell’appoggio della Gran Bretagna, che si affrettò a circondarli di consiglieri, continuando a fare il bello e il cattivo tempo in tutta la regione. Un discorso identico va fatto per l’Egitto che si vide riconoscere il diritto all’indipendenza nel 1920, ma che doveva restare nella sfera di influenza britannica e accettare basi militari sul proprio territorio.
2. Importante in questo processo anche il ruolo giocato dai contrasti fra i diversi imperialismi. In particolare, gli Usa, nel tentativo di penetrare economicamente nel Medio Oriente cercarono di presentarsi come una potenza “pacifica”, capace di contrastare lo storico colonizzatore britannico allo scopo, in realtà, di indebolirlo e sostituirsi ad esso. In questo senso vanno letti episodi specifici quali le dichiarazioni di Wilson, presidente degli Usa, a favore dell’autodeterminazione dei popoli o la missione King-Crane, che si era battuta per impedire l’imposizione dei mandati. Iniziò così la storica alleanza fra la dinastia saudita dei Wahabiti e gli Stati Uniti. Gli Usa in un primo momento sostennero anche il colpo di stato degli Ufficiali liberi in Egitto nel 1952.
3. La Gran Bretagna nel 1917 accolse la richiesta del movimento sionista che chiedeva di essere autorizzato a costituire in Palestina uno Stato ebraico. In una lettera ufficiale al presidente della federazione sionista britannica il ministro degli Esteri Balfour dichiarava la disponibilità del “Governo di Sua Maestà” ad istituire gli insediamenti ebraici in Palestina.
4. Nel 1905 un’ondata di scioperi di massa mise per la prima volta in discussione il potere dello zar.
5. In ogni caso in una economia capitalista il vertice è costituito dal sistema bancario, legato a doppio filo ai proprietari terrieri a causa delle ipoteche. Se non si perde di vista il fatto che gli stessi industriali dipendono dalle banche ecco spiegato qual è la relazione che porta la borghesia industriale a difendere i proprietari terrieri: il timore delle ipoteche bancarie sulle terre.
6. È una proposizione elementare del marxismo che lo Stato e i suoi apparati non sono una forza indipendente, ma che devono per forza di cose riflettere gli interessi di una classe. In tempi normali gli apparati dello Stato (esercito, polizia, magistratura, ecc.) rispecchiano la posizione della classe dominante. Ma in periodi di crisi e di instabilità sociale lo Stato e l’esercito sono divisi in numerose fazioni. A questo proposito si veda Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato e Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte.
7. Il Partito comunista egiziano, come tutti gli altri Pc, nel corso della seconda guerra mondiale si schierò con l’imperialismo anglo-americano. Era questa una linea politica decisa da Mosca e che subordinava la lotta mondiale al capitalismo alla difesa della burocrazia sovietica. Ciò alienò le simpatie delle masse di lavoratori e contadini non solo in Egitto. In Argentina, ad esempio, è noto che l’atteggiamento filobritannico del Pc facilitò l’ascesa di Peròn che riuscì a sfruttare i sentimenti antimperialisti della popolazione.
8. Il Partito comunista continuerà a sostenere il governo di Kassem anche dopo la sua messa fuori legge. Baathisti e nasseriani formarono un fronte unico contro Kassem dopo che quest’ultimo nel 1959 rifiutò di federare l’Iraq alla Rau.
9. Un avvenimento analogo lo possiamo rilevare nella Rivoluzione d’Ottobre. In aprile Lenin torna dall’esilio e presenta le “Tesi di Aprile” attraverso le quali cerca di sterzare la linea, adottata dal Partito bolscevico, di difesa della repubblica democratica-borghese nata dalla rivoluzione del febbraio. Il regime democratico di Kerensky non risolse nemmeno uno dei compiti della rivoluzione nazionale: la riforma agraria, il problema delle nazionalità oppresse, la fine della guerra. Per Lenin la fase democratico-borghese della rivoluzione doveva essere superata: “Non abbiamo bisogno di una repubblica parlamentare, non abbiamo bisogno di una democrazia borghese, non abbiamo bisogno di nessun governo al di fuori dei soviet degli operai, dei soldati e dei braccianti agricoli” (Trotskij, Storia della rivoluzione russa). Lo slogan “Tutto il potere ai soviet” esprimeva la necessità di farla finita con la repubblica di Kerensky che, non spingendosi oltre i limiti del potere borghese, non portava a compimento la rivoluzione, e di instaurare un nuova forma di potere (quello sovietico appunto) che avrebbe proceduto a realizzare la pace immediata, la distribuzione della terra ai contadini, il controllo della produzione.
10. Kruscev descrisse il progetto pan-arabo come disegno apertamente razzista. In realtà, la burocrazia sovietica aveva timore che l’unificazione araba andasse a turbare gli equilibri internazionali e la spartizione del mondo in sfere di influenza che si venne a delineare successivamente ai trattati di Yalta. Ancor più pericolose per la burocrazia di Mosca potevano essere le prospettive di mobilitazioni di massa che sarebbero seguite allo slogan della “nazione araba unita”. D’altra parte è facile osservare come le rivoluzioni nei paesi arabi siano avvenute nonostante i vari partiti comunisti e non grazie ad essi.
11. Per maggiori delucidazioni si veda Grant,La teoria marxista dello Stato appendice aRussia, dalla rivoluzione alla controrivoluzione (AC editoriale, 1999) e Trotskij,Lo Stato operaio, il Termidoro e il Bonapartismo appendice aLa rivoluzione tradita (AC editoriale, 2000).
12. Fra il 1979 e il 1980 si consumerà la rottura definitiva fra la Siria e l’Iraq. Il regime di Damasco si schiererà addirittura al fianco dell’Iran durante la lunga guerra Iran-Iraq degli anni ’80. Sempre nel corso degli anni ’80 si inasprisce l’oppressione nei confronti di curdi e sciiti sterminati a migliaia con l’impiego di gas tossici.
13. Si vedano, per esempio, Marx, La borghesia e la controrivoluzione, Engels,Rivoluzione e controrivoluzione in Germania.
14. Per tutta una fase (1905-1917) Lenin parlava di “dittatura democratica degli operai e dei contadini”. Solo con le Tesi di Aprile dal 1917 abbracciò la posizione, già formulata da Trotskij nel 1906, che una rivoluzione democratica guidata dalla classe operaia avrebbe aperto la fase della rivoluzione socialista in Russia e su scala mondiale. Si veda: Trotskij, La rivoluzione permanente.
15. Il nocciolo di questo pensiero politico fu esposto da Lenin inDue tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica.
16. La possibilità della rivoluzione socialista in un solo paese era decisamente esclusa anche da Engels inPrincipi del comunismo.
17. Si vedano a questo proposito i numeri 160 e 165 di Falcemartello e l’opuscoloContro l’aggressione imperialista. Contro il fondamentalismo curato dalla Pakistan Trade Union Defence Campaign (Campagna per la difesa dei sindacati pakistani) e da noi edito nel 2001.