Alcuni accenni sulla fusione Fiat-Chrysler annunciata da Marchionne il primo gennaio su cui torneremo più diffusamente in futuri articoli.
È stato già osservato correttamente come Chrysler venga pagata in gran parte con i soldi di Chrysler stessa.
Dei 3,6 miliardi di dollari necessari a pagare il 41,5% delle quote possedute da Veba (il fondo sanitario del sindacato Uaw), 1,9 miliardi verranno erogati dai profitti di Chrysler degli ultimi due anni, 1,7 miliardi arriveranno invece da un convertendo (obbligazione che alla scadenza si trasforma in azione). Un sistema per reperire risorse sul mercato già utilizzato da Volkswagen per l’acquisto di Porsche.
L’accomandita di controllo, Exor, della famiglia Agnelli, non sarà costretta a fare un aumento di capitale e non spenderà quasi nulla per l’acquisizione di Chrysler. Diversi giornali tedeschi hanno commentato con sarcasmo, come Marchionne abbia pagato Chrysler un decimo di quanto aveva sborsato Daimler nel ‘98.
Il “miracolo” finanziario di Marchionne è così riuscito e non a caso i titoli della Fiat volano in borsa con un balzo che solo nella prima giornata è stato del +12,5%.
Operazione finanziaria perfetta dunque, ma per quanto riguarda la costruzione di auto?
Forse il sarcasmo dei media teutonici può essere spiegato dal nervosismo delle case tedesche che temono che Fiat usi Chrysler per rafforzarsi nei settori alti del mercato dell’auto. Il ritardo sulle case tedesche è notevole ma è pur sempre vero che sia a Mirafiori che a Melfi sono stati annunciati dei piani di riconversione orientati alle gamme alte.
Gli scettici insistono sul fatto che il Lingotto è fortemente indebitato (circa 27 miliardi di euro). Ma è anche vero che nonostante questo mantiene un livello di liquidità molto alto, di poco inferiore ai 20 miliardi di euro.
Perché una società così indebitata mantiene tanta liquidità, su cui paga interessi corposi, e per giunta senza vendere dei marchi, come si era vociferato nel caso dell’Alfa Romeo?
È lecito pensare che come avviene per le altri grandi case automobilistiche, chiusa l’operazione Chrysler, anche la Fiat decida di mettere in campo un piano di investimenti (si parla di 9 miliardi di euro, di cui la metà in Italia).
Come ha notato un fondo d’investimento americano, dopo lo smantellamento di Termini chiudere uno dei grandi stabilimenti italiani oggi comporterebbe un costo per l’azienda di almeno mezzo miliardo di euro, che non ha motivo di sostenere, meglio tenere questi ultimi aperti accollando sulle casse dello Stato italiano gli scarsi livelli produttivi dovuti alla crisi e al continuo calo delle vendite in Italia e in Europa.
Il governo italiano, da quando è iniziata la crisi, ha già sborsato più di un miliardo di euro in Cassaintegrazione (Cig) solo per il gruppo Fiat, ma è probabile che continui ad allargare i cordoni della borsa e che la Cig venga rinnovata negli stabilimenti in scadenza (a partire da Pomigliano dove scadrà a fine marzo).
Nell’accordo con Veba il capitolo più interessante è quello che riguarda la clausola di 700 milioni di dollari da versare in tre anni, che recita così: “la Uaw si adopera ad implementare il programma Wcm…e a contribuire attivamente al raggiungimento del piano industriale di lungo termine del gruppo”.
Il Wcm, che è stato introdotto anche nei siti italiani a partire da Pomigliano, è un sistema di supersfruttamento ma anche di “collaborazione” che necessita di un coinvolgimento diretto dei lavoratori e delle loro organizzazioni.
La sfida di Marchionne sarà ovviamente questa: investimenti in Italia alle condizioni del sindacato americano. Non sappiamo se il gruppo dirigente della Fiom avrà la forza di respingere il ricatto, come fece nel 2010. Degli altri sindacati non parliamo perché hanno dimostrato che firmeranno qualunque cosa gli venga messa sotto il naso. Ma qualsiasi cosa accada sul fronte sindacale, la storia del conflitto in Fiat dimostra che, quando vengono raggiunti i limiti di sopportazione umana, qualsiasi accordo sarà carta straccia e saranno i lavoratori a riprendersi la parola.