“Senza Schengen l’Unione europea è minacciata nelle fondamenta”, afferma il presidente della Commissione europea, Juncker.
Ha tutte le ragioni per allarmarsi. Già cinque paesi hanno deciso di sospendere il trattato “temporaneamente”: oltre a Germania e Austria, anche Francia, Danimarca e Svezia. Da più parti si insiste per estendere la sospensione di Schengen fino a due anni (attualmente prevista per un massimo di sei mesi).
La crisi dei profughi è la causa scatenante. I media parlano di orde di profughi che minacciano l’Europa, ma il milione e mezzo di rifugiati che hanno cercato di entrare nell’Ue nel 2015 sono solo lo 0,3% del totale della popolazione dell’Unione. Una percentuale risibile, ma che ha fatto da catalizzatore di tutte le contraddizioni esistenti.
Le ragioni sono infatti molto più profonde, e sono soprattutto economiche. Il Pil dell’Eurozona dovrebbe crescere dell’1,5% nel 2015, nonostante la politica di quantitative easing sviluppata dalla Banca centrale europea (Bce), inaugurata a marzo dell’anno scorso, che ha versato mille e 100 miliardi di euro alle banche del continente per stimolare l’economia. Secondo i bilanci della stessa Bce, “le banche dell’Eurozona hanno parcheggiato presso la Bce l’80% della liquidità immessa attraverso il ‘Qe’” (Il sole 24 ore, 24 novembre 2015).
Gli istituti bancari sono riluttanti a prestare soldi, anche perché sono seduti su una quantità incredibile di crediti deteriorati che, secondo alcuni studi ammontano a un migliaio di miliardi di euro. Le banche italiane detengono circa 200 miliardi di sofferenze bancarie. La cifra è allarmante, circa il 20% dei prestiti concessi in Italia sono crediti deteriorati. L’accordo raggiunto recentemente tra Renzi e Bruxelles non risolve alcun problema: secondo uno studio del Sole 24 ore del 31 gennaio sarà possibile vendere sotto forma di titoli, sotto la garanzia dello Stato, solo un terzo delle sofferenze, i cosiddetti prestiti “buoni”. L’ipotesi di una bad bank che le incorporasse tutte è stata bocciata dalla commissione europea, timorosa delle conseguenze sul debito pubblico italiano. Ancora una volta Renzi fa la voce grossa, ma alla fine si piega alle volontà di Bruxelles (e di Berlino).
L’esperienza di questi anni dimostra che sia il bail-out (il salvataggio da parte dello Stato) sia il bail-in (salvataggio interno con la svalutazione di azioni e crediti, compresi i conti correnti oltre i 100mila euro) hanno solo trasferito o aggravato il problema della bolla creditizia e finanziaria, facendo pagare tali salvataggi sempre ai lavoratori.
Il sistema creditizio, insomma, non può che risentire della crisi dell’economia reale. La crisi cinese addensa nubi minacciose sull’economia europea e in primo luogo su quella tedesca, le cui esportazioni ammontavano al 45,6% del Pil nel 2014.
Conclusione: le banche e le grandi multinazionali preferiscono speculare nei mercati finanziari piuttosto che investire nella produzione (gli investimenti nell’eurozona sono calati del 20% dall’inizio della crisi) perché sanno che le loro merci resteranno invendute.
I riflessi politici sono immediati. L’Institut der deutschen Wirtschaft (Istituto di ricerche economiche) di Colonia stima in 50 miliardi il costo dell’emergenza rifugiati in Germania nei prossimi due anni, per assistere due milioni di profughi. Una cifra equivalente a una legge finanziaria che la borghesia tedesca, e soprattutto il governo Merkel non si può più permettere.
Angela Merkel nel settembre scorso sembrava avere aperto il cuore (e le frontiere ) ai profughi che premevano ai confini. Da una parte ha cercato di capitalizzare a suo vantaggio la commozione di tanti lavoratori e giovani tedeschi verso la disperazione dei profughi, dall’altra il governo tedesco ha accolto così anche le richieste del grande capitale, desideroso di poter disporre di manodopera a basso costo (e qualificata, come molti giovani siriani) da poter sfruttare nelle proprie aziende.
Ma due milioni di immigrati sono troppi e Berlino ha cambiato rapidamente idea. L’economia tedesca è colpita dalla crisi, a destra Alternative für Deutschland e Pegida soffiano sul fuoco, togliendo consensi e esasperando le contraddizioni all’interno dei cristiano democratici.
La proposta di una ripartizione dei profughi in base a quote per ciascuno dei 28 paesi dell’Unione è miseramente fallita. Su 160mila persone previste, solo 322 sono state ricollocate. La crisi dei rifugiati dimostra che la Germania non è in grado di fare il bello e il cattivo tempo nell’Unione europea. Quelli che erano un tempo i suoi più fedeli vassalli, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria non obbediscono più a Berlino. Angela Merkel chiede di aprire le frontiere? Orban costruisce un muro al confine. Propone al governo polacco di ospitare un numero maggiore di profughi? Varsavia ne espelle un numero equivalente, mentre la Slovacchia proclama che resisterà con ogni mezzo alla “islamizzazione” del paese. In Danimarca verranno requisiti gli ori dei profughi (certo, a meno che non abbiano un “valore affettivo”!). La “socialdemocratica e progressista” Svezia espellerà 80mila profughi, tra quelli arrivati nel 2015. L’Olanda riporterà in Turchia, via treno, i profughi arrivati via mare in Grecia. Per fare accettare questo controesodo di migranti, Bruxelles (vale a dire la Germania) ha già pronti 3 miliardi di euro. Che questi soldi vengano gestiti dal governo di Erdogan, uno dei più autoritari del continente, che reprime spietatamente il popolo curdo, è un piccolo dettaglio.
Ogni azione ne provoca una contraria. Il Primo ministro britannico Cameron ha convocato un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione che tiene le élite del vecchio continente col fiato sospeso. Lo usa come una pistola puntata verso Bruxelles e ha già ottenuto che i lavoratori cittadini dell’Ue non godranno degli stessi diritti dei lavoratori britannici. Ormai la legislazione europea è “à la carte”, ogni governo sceglie solo quello che gli piace. Il referendum britannico ha sempre più la valenza di un referendum sul futuro di tutta l’Unione europea.
La retorica della “fratellanza europea”, con cui le classi dominanti avevano educato generazioni di scolari, è dunque in mille pezzi. In tutto il vecchio continente vediamo un sentimento crescente di sfiducia e di ostilità verso l’Unione europea. È totalmente giustificata. L’Unione europea viene considerata come una dittatura del grande capitale, che impone sacrifici e austerità e calpesta la volontà dei popoli, come quella espressa da quello greco nel referendum del 5 luglio 2015. Un mostro che ha creato 25 milioni di disoccupati e spinto oltre 120 milioni di persone, un europeo su quattro, sulla soglia della povertà.
Queste politiche hanno provocato da una parte un’opposizione di massa e una radicalizzazione a sinistra in paesi come Spagna, Grecia e Portogallo, dall’altra una crescita i partiti populisti e antiimmigrati in diversi paesi del nord e dell’est Europa, dalla Danimarca all’Ungheria, dalla Polonia alla Germania, passando dalla Francia. La crisi dei partiti tradizionali è ormai generalizzata.
Se la destra cresce, anche fra settori popolari, la responsabilità è in gran parte della mancanza di un’alternativa a sinistra. L’argine alle idee razziste e xenofobe non può essere la difesa di Schengen, così come la lotta contro i nazionalismi non può trovare una risposta nella difesa dell’Unione europea. Se legislazioni reazionarie come Schengen vanno in frantumi dobbiamo rallegrarcene, non metterne assieme i cocci, e proporre al loro posto un’alternativa rivoluzionaria.
Schengen prevede la libera circolazione di chi già risiede all’interno dell’Unione. Lo scopo era quella di creare una “Fortezza europea”, inaccessibile a chi veniva respinto, destinandolo a dei veri e propri campi di concentramento a cielo aperto in Libia, in Marocco, in altri paesi del Mediterraneo. Oggi lo si vuole fare in Turchia. Un sogno reazionario, che oggi potrebbe lasciare spazio a un incubo, altrettanto reazionario, quello dei piccoli fortini nazionali.
Una volta bloccate le frontiere per le persone, il passaggio al ritorno delle barriere doganali anche per le merci sarebbe breve. Secondo il Financial Times (2 febbraio), la scomparsa di Schengen porterebbe, a una perdita di 110 miliardi di euro lo 0,8% del Pil dei 26 paesi aderenti.
La fine della libera circolazione delle persone e delle merci, il crollo dell’euro… Ben poco resterebbe dell’Unione europea così come la conosciamo: è una prospettiva del tutto possibile nell’immediato futuro.
La Troika pensava di aver allontanato il pericolo della fine dell’Euro con la capitolazione di Tsipras nel luglio scorso. Ma nessuno dei problemi fondamentali è stato risolto. Le dure misure di austerità imposte dal secondo governo di Syriza non hanno risollevato l’economia, che si prevede sia cresciuta dello 0,3% nel 2015 e si contragga del 2,9% quest’anno. Il pacchetto di austerità hanno però rilanciato la lotta di classe, con lo sciopero generale dello scorso 4 febbraio, e la crescente insoddisfazione della Troika, che prepara nuovi diktat. La permanenza di Atene nella moneta unica è dunque di nuovo a rischio.
Il fallimento dell’euro era già stato da noi previsto, nel mezzo dell’euforia filo europeista della fine del secolo scorso: “Ma anche se si riuscisse ad arrivare a un accordo pasticciato (nessun altro è possibile), ci si troverebbe di fronte molto presto a una serie problemi nuovi e insolubili che porterebbero la moneta unica al crollo tra recriminazioni reciproche. Lungi dal condurre ad una maggiore integrazione europea, (la moneta unica) avrebbe l’effetto opposto, aggravando enormemente le tensioni e conflitti tra gli stati nazionali”(Alan Woods, 4 aprile 1997).
L’Euro è nato per cercare di superare una contraddizione fondamentale del sistema ma, volendo farlo rimanendo all’interno dei confini del capitalismo si è tramutato da volano per lo sviluppo a catalizzatore del ciclo recessivo. Le forze produttive si sono da tempo sviluppate a livello internazionale, travalicando i confini, ma gli interessi nazionali, espressione delle volontà delle rispettive classi dominanti, sono ancora vivi e vegeti e sono un pesante ostacolo al progresso dell’umanità.
Le borghesie di ciascun paese usano il veleno del nazionalismo e del razzismo per dividere le classi oppresse e perpetuare il loro dominio. Il capitalismo e i suoi politici al potere ci negano qualunque futuro imponendoci i loro diktat, che non cambiano certo natura se vengono dall’Unione europea oppure da un governo nazionale. Per fermarli c’è una sola soluzione possibile: una rivoluzione socialista a livello europeo e internazionale che elimini il profitto e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Questa è l’unica base per una autentica, libera e volontaria unione dei popoli d’Europa e di tutto il mondo.