Kenya: le conseguenze della barbarie capitalista

Italian translation of Kenya: the barbaric consequences of capitalism (February 5, 2008)

Lenin una volta disse che il capitalismo è orrore senza fine. Il Kenya è la prova più orribile di tale affermazione. Si tratta di una nazione di circa 36 milioni di abitanti, situata all’equatore, sulla costa orientale dell’Africa, confinante con il Sudan e l’Etiopia a nord, l’Uganda ad ovest, la Tanzania a sud e l’Oceano Indiano ad est. Al nord-est del Kenya si trova la Somalia. La capitale, Nairobi, è una delle più grandi città dell’Africa, con tre milioni di abitanti. L’età media della popolazione è di 18 anni. Il Kenya ha la fortuna di avere un clima mite e fertili terreni agricoli, nonostante il 70% del territorio sia arido o semi-arido. I panorami mozzafiato e l’abbondante fauna hanno reso il Kenya una delle destinazioni turistiche più gettonate dell’Africa. Il Kenya ha una cultura molto vivace, che è dovuta in misura non marginale alla sua diversità etnica.

Kenya map Le basi della sua economia sono l’agricoltura e il turismo. Le coltivazioni principali sono tè, caffè, anacardio, mais, zucchero e piretro. Ha perciò tutti gli elementi per diventare una nazione prospera e di successo. Ma quasi mezzo secolo dopo l’indipendenza dalla dominazione Britannica, rimane una nazione povera. Il reddito pro capite nazionale è di circa 300 dollari. Fino a tempi recenti, il Kenya era preso come esempio lampante del successo dell’economia di libero mercato. Ecco un paese che applicava alla lettera le politiche dettate dalla Banca Mondiale e dal FMI. Avrebbe dovuto essere un brillante esempio di democrazia, un faro di speranza per quello che gli europei una volta chiamavano “il continente nero”.

Ora tutti questi sogni sono ridotti in cenere. Nelle ultime settimane, il Kenya è stato dilaniato da un’ondata di violenza etnica e tribale che ha mietuto quasi mille vittime. La causa immediata di questa violenza sono stati i brogli alle elezioni del 27 dicembre, quando il presidente Mwai Kibaki ha derubato l’opposizione della vittoria con eclatanti brogli elettorali. Immediatamente dopo le discusse elezioni, i sostenitori di Raila Odinga, membro della tribù Luo, che guida l’Orange Democratic Movement all’opposizione, sono scesi nelle strade per protestare. Dato che Kibaki è un Kikuyu, come la maggior parte dei suoi sostenitori, la protesta ha assunto i caratteri di un sanguinoso conflitto etnico.

Da allora, almeno 1000 persone sono morte e 200 mila sono state sfollate dalle proprie case in un clima di diffusa violenza. Ogni giorno i media occidentali sono pieni di notizie di nuovi orrori, mentre povere persone comuni africane si uccidono a vicenda con machete, mazze e coltelli. Le case vengono saccheggiate e date alle fiamme e migliaia di persone sono costrette a fuggire verso altre zone. Decine di migliaia di famiglie sono state costrette a lasciare le proprie case. Sono state fatte a pezzi o bruciate a morte persone, e donne violentate. L’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari a Ginevra oggi ha reso noto che sono stati denunciati 167 stupri all’ospedale delle donne di Nairobi nell’ultimo mese, con la vittima più giovane di un anno soltanto.

L’uccisione con arma da fuoco, in incidenti separati, di due parlamentari del gruppo Orange ha scatenato altri massacri nei ghetti della capitale e altrove. Uno era Mugave Were, un Luhya piuttosto conosciuto a Nairobi; l’altro era David Kimutai Too, un Kalenjin. Nella capitale provinciale dei Luo, Kisumu, altri Kikuyu sono stati massacrati, alcuni mettendo un copertone imbevuto di benzina attorno al collo e alle spalle e dandogli fuoco, ad opera di giovani Luo. A Eldoret, dove Too è stato colpito a morte da uno sparo di un ufficiale di polizia, centinaia di giovani hanno bloccato le strade con copertoni in fiamme e pietre, al coro di “Kibaki deve andarsene”. Colonne di fumo si sono innalzate dalle macerie fumanti di ciò che rimane delle zone residenziali Nwagocho e Baraka della città. In queste zone la polizia ha sparato a quattro persone, uccidendole, e ne ha ferite altre cinque giovedì sera e venerdì mattina. Erano state accusate di aver saccheggiato ed appiccato il fuoco a proprietà residenziali ed edifici commerciali.

Durante attacchi di rappresaglia nel villaggio di Ainamoi, ad ovest, un ufficiale di polizia è stato linciato da una folla di 3000 persone armate di archi e frecce, lance, mazze e machete. L’hanno accusato di aver ferito un civile quando la polizia aveva aperto il fuoco sui manifestanti che erano scesi in piazza alla notizia della morte di Too. “L’ufficiale di polizia ha ferito tre aggressori prima di essere sopraffatto e linciato sul posto”, ha detto il comandante della polizia Peter Aliwa. Ufficiali regionali hanno detto che otto persone sono state uccide nel villaggio di Ikonge, 240 miglia ad ovest della capitale, Nairobi, in un attacco di rappresaglia collegato all’uccisione di Too. Circa 100 uomini hanno fatto a pezzi sei delle vittime. Le altre due sono state uccise con frecce avvelenate, hanno riferito gli ufficiali. Altre quattro persone sono state uccise dalla polizia. La lista degli orrori pare infinita.

L’ipocrisia della “comunità internazionale”

La debole borghesia nazionale keniota è spaventata da questi sviluppi. Il principale quotidiano nazionale, il Daily Nation, che durante la campagna elettorale tendenzialmente appoggiava Kibaki, ha perso la pazienza. Un editoriale affermava che “l’inerzia e l’incapacità” del governo stanno “portando in superficie istinti elementari e portando indietro il Paese al periodo pre-coloniale”. La borghesia è tormentata, ma qual è la soluzione? A questa domanda il Daily Nation non ha risposta.

Che dire della “comunità internazionale”? Le simpatiche nazioni democratiche come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti vorranno forse tirarsi indietro? Di fronte a questa agghiacciante carneficina, la risposta di questi governi è stata il silenzio. Dove sono gli appelli accorati per un “cambiamento di regime” a Nairobi? Dove sono le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU? Dove sono i piani per l’intervento umanitario? Non c’è nulla di tutto questo. Come mai? Forse a causa del fatto che il Kenya non possiede petrolio, o forse perchè l’Occidente ha finora spalleggiato il presidente keniota, Mwai Kibaki, ed il suo regime, e non vedono alcuna urgenza di cambiare linea. Qualunque sia la ragione, i cortesi, civili leader cristiani del mondo occidentale non hanno alcuna fretta di aiutare a prevenire una catastrofe analoga a quella del Ruanda.

Come sempre, l’atteggiamento dei paesi imperialisti puzza di ipocrisia lontano un miglio, visto che Gran Bretagna e Stati Uniti hanno dato – e continuano a dare – un considerevole supporto militare al Kenya. Kibaki è stato convintamene considerato in passato come un alleato nella “guerra globale al terrore”. Si dice che l’Unione Europea potrebbe invocare sanzioni “selettive” al Kenya, che punirebbero Kibaki ed alcuni dei suoi ministri e dei suoi sostenitori, mentre risparmierebbero ai Kenioti più poveri, si suppone, gli effetti di un embargo generalizzato al commercio ed agli aiuti. Questo significherebbe il ritiro dei passaporti a particolari individui ed alle loro famiglie, e misure analoghe. Ma questo tipo di soluzione è stato già sperimentato nel caso dello Zimbabwe, senza che abbia prodotto risultati significativi. Sarà certamente un po’ fastidioso per la signora Kibaki non poter andare a Londra per fare shopping da Harrods, ma questa è una punizione a stento paragonabile ad un buffetto.

Hanno inviato l’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, perché faccia da mediatore tra Kibaki ed il leader dell’opposizione, Raila Odinga. Kofi Annan afferma che i due avversari politici hanno concordato un piano di quattro punti di discussione che potrebbe porre fine alla violenza “nel giro di non più di quindici giorni”. “Il primo punto è agire immediatamente per fermare la violenza”, ha detto all’agenzia di stampa Reuters. Ma queste sono soltanto parole, mentre non si vede alcun segno di una diminuzione della violenza. Semmai il contrario.

Diplomatici, uomini d’affari e leader religiosi sperano ardentemente che i negoziati di Annan avranno successo. Sanno che Kibaki è il responsabile per aver organizzato brogli nelle elezioni presidenziali, ma hanno concordato di non fare pressioni per sanzioni immediate, in modo da dare ad Annan più tempo. Ma il tempo non scorre dalla loro parte. Kibaki sta tirando in lungo le discussioni nella speranza di rafforzare la propria posizione senza fare alcuna concessione né sulle elezioni, né su alcun altro punto. E i sostenitori dell’opposizione vengono invitati a placare la loro rabbia e moderare le loro richieste. Questo è tutto ciò che Annan e le Nazioni Unite hanno da offrire: mantenete la calma! Evitate la violenza! Ma la violenza continua ad aumentare, e minaccia di sopraffare tutta la società.

In considerazione dell’evidente impotenza di Kofi Annan, l’attuale segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, è volato dal summit dell’Unione Africana che si teneva in Etiopia fino a Nairobi per fornirgli un po’ di appoggio. I colloqui sono ripresi, Ban ha fatto appello ad entrambe le parti perché si “guardi oltre l’interesse individuale, l’interesse di partito… Ora il futuro è nelle vostre mani”. Ma queste non sono che parole vuote, e non hanno avuto alcun effetto. Lo spazio che divideva i due partiti antagonisti prima delle elezioni è divenuto ora un abisso incolmabile. Un conflitto simile non può essere risolto per vie puramente parlamentari. In un discorso al summit dell’Unione Africana ad Addis Abeba, Kibaki ha accolto gli sforzi di mediazione internazionale ma ha proposto che l’opposizione porti le sue doglianze in sede giudiziaria. Ha affermato: “La magistratura in Kenya ha risolto diverse dispute riguardo alle elezioni nel corso degli anni, e questa non dovrebbe fare eccezione”.

Questo discorso mostra il palese cinismo di Kibaki. Tutti sanno che i tribunali sono pieni di alleati di Kibaki. In ogni caso, i processi si muovono così lentamente che potrebbero volerci mesi o anni per raggiungere un verdetto. Si tratta di un evidente tentativo di usare tattiche dilatorie. Un riconteggio dei voti non risolverebbe nulla perché la maggior parte dei Kenioti non ha alcuna fiducia nella commissione elettorale. Il partito Orange invoca una nuova elezione, che sarebbe la soluzione più democratica. Ma anche se l’elezione si tenesse (e Kibaki ha rifiutato), a chi converrebbe? È improbabile che Kibaki e i suoi sostenitori si siedano di fianco a Odinga in un governo provvisorio. Nel frattempo, il massacro continua.

I crimini dell’imperialismo

Per molti in Europa questa situazione sembra irresolubile. Alcuni si limitano a stringersi nelle spalle e fare vaghe allusioni al tribalismo, un termine che peraltro non comprendono. Altri la vedono come una conferma del fatto che gli africani siano un popolo “primitivo” con istinti “selvaggi”, di contro ai civili Europei. Nulla potrebbe essere più lontano dal vero. Ci sono sempre state diverse tribù in Kenya, come in ogni altro paese dell’Africa. Ci sono state in passato guerre fra tribù, provocate da furti di bestiame o terreni o altre risorse naturali come laghi e fiumi. Ma questi conflitti tribali erano come giochi da bambini, al confronto che le guerre sanguinose che noi “civili” Europei abbiamo combattuto per secoli, al costo di milioni di morti. Ed il danno causato da queste antiche guerre fra tribù impallidisce al confronto di quelli causati dall’arrivo di stranieri, fin dalla metà del XV secolo. Il tipo di conflitti volti allo sterminio etnico a cui abbiamo assistito in regioni come il Ruanda erano sconosciuti in Africa prima dell’arrivo dei bianchi. Potevano essere soltanto il prodotto del nostro mondo illuminato e civilizzato.

Il dominio coloniale del Kenya fu accompagnato dalla stessa violenza che ha caratterizzato il processo in altri Paesi africani. I colonizzatori diedero deliberatamente certi privilegi a determinate tribù a spese di altre. In tutta l’Africa, le divisioni tribali vennero incoraggiate ed intensificate dai dominatori europei, specie i più ferventi cristiani. Gli inglesi furono particolarmente abili in questo gioco. In Kenya introdussero un rigido sistema per dividere in categorie gli “indigeni” secondo le loro vere o immaginarie origini tribali. A questo scopo inventarono perfino tribù inesistenti, come i Kalnjin, la cui esistenza come tribù sembra risalire agli anni ’40. Furono dunque i Britannici a piantare i semi dei conflitti tribali. Lasciarono dietro di sé la stessa velenosa eredità che avevano in precedenza seminato in Irlanda, Palestina, Cipro e nel subcontinente indiano.

La Rift Valley, che è divenuta l’epicentro di gran parte della violenza etnica, nel periodo coloniale era nota come le “White Highlands” (Highland Bianche). Originariamente era abitata dagli allevatori Masai, ma i britannici, che volevano questo territorio per sé, li cacciarono. Le radici della lotta di indipendenza risalgono al primissimo istante in cui quelle comunità vennero strappate a forza dei terreni fertili. La resistenza organizzata iniziò dopo la prima guerra mondiale, ed inizialmente fu incentrata su questioni come l’accesso all’educazione per gli africani, i diritti di proprietà sulla terra e l’importo delle tasse. La lotta si intensificò dopo la seconda guerra mondiale, quando i neri africani tornarono dal fronte avendo acquisito maggiori capacità militari, e lanciarono una lunga e sanguinosa guerriglia per l’indipendenza.

La popolazione keniota subì molte vittime, e molti partigiani dell’indipendenza furono imprigionati e mandati in campi di concentramento. Ma alla fine vinsero e il Kenya divenne indipendente il 12 dicembre 1963. Fu una grande vittoria per il popolo keniota. Ma i leader della lotta di indipendenza provenienti dalla classe media perpetuarono il sistema oppressivo e di sfruttamento britannico. Formalmente indipendente, la borghesia nazionale mantenne un atteggiamento servile nei confronti della Gran Bretagna. In realtà, oltre quarant’anni dopo l’indipendenza, il Kenya oggi è più dipendente che mai dall’imperialismo.

Qual è il problema? Il problema è che il popolo del Kenya ha combattuto un’eroica guerra di liberazione nazionale contro l’imperialismo britannico. Gli Inglesi furono costretti ad andarsene. Ma questa, in realtà, fu una vittoria a metà. La parte del leone del bottino finì nelle tasche della nuova classe media, i neri che aspiravano al tenore di vita degli Europei e che segretamente ammiravano i vecchi padroni colonialisti e volevano essere proprio come loro. Il presidente fondatore fu Jomo Kenyatta, il leggendario leader della lotta di liberazione. Governò il Kenya dal momento dell’indipendenza fino alla morte, nel 1978. Come Julius Nyerere ed altri leader africani, originariamente parlava di socialismo e prometteva di liberare il paese dalla maledizione di malattie, ignoranza e povertà. In realtà, questo era il programma della rivoluzione democratico-borghese. Ma nelle condizioni moderne è impossibile per un paese sottosviluppato come il Kenya risolvere i problemi della rivoluzione democratico-borghese sulla base del capitalismo.

La bancarotta della borghesia nazionale

La borghesia nazionale è troppo debole, e troppo dipendente dall’imperialismo, per risolvere i più urgenti problemi delle masse. La nuova élite nera ha frequentato esclusive scuole britanniche dove i suoi esponenti hanno imparato a parlare e pensare come i B’wana bianchi dei giorni coloniali. Sono diventati azionisti delle società britanniche e americane che si sono stabilite in Kenya ed hanno stabilito un nuovo tipo di dipendenza coloniale. Per il lavoratore keniota povero ed il contadino medio non è cambiato molto. Sono stati protagonisti di tutte le lotte, ma tutto ciò che sono riusciti ad ottenere è stato scambiare un padrone con un altro. La nuova borghesia nera si è dimostrata altrettanto rapace di quella britannica, ma ancora più corrotta, inefficiente e marcia. In effetti, ha svolto la funzione di agenti locali degli imperialisti britannici e americani.

Dopo l’indipendenza, i differenti gruppi della classe dominante hanno preso a scontrarsi tra loro per il potere e l’autorità. In questa lotta per il potere si sono basati sulle rivalità tribali. Così, hanno mantenuto intatto l’antico sistema del divide et impera usato dagli Inglesi. Kenyatta, che era un Kiyuku, era in conflitto con Odinga Odinga (il padre dell’attuale leader dell’opposizione), che si appoggiava sull’etnia Luo. Per rafforzare la propria posizione, Kenyatta distribuì vaste porzioni di terra fertile ai suoi seguaci Kikuyu in quelle che venivano precedentemente chiamate Highland Bianche. Altre tribù come i Luo e i Kalenjin vennero ampiamente discriminate. Ciononostante, le diverse tribù vivevano a stretto contatto in pace, e spesso si verificano matrimoni misti. C’era un sentimento di identità nazionale keniota. Ma negli ultimi anni è cresciuta la sensazione che i frutti della crescita economica del Kenya non venissero distribuiti equamente. Questa sensazione ha gradualmente assunto la forma del risentimento nei confronti del controllo del potere da parte della tribù dominante dei Kikuyu.

La costante lotta per il potere tra i partiti dominanti e quelli di opposizione ha portato a una concentrazione del potere nelle mani del presidente. Il Kenya è diventato di fatto uno Stato con un solo partito (il KANU) ed un leader bonapartista (Kenyatta). Tutto il potere è stato conferito alla presidenza. L’indipendenza del sistema giudiziario era una farsa. Gli oppositori venivano imprigionati senza processo mentre le vere minacce venivano “eliminate”. Gangsterismo e corruzione erano sempre più diffusi. Ma grazie alla guerra fredda tra Russia e Stati Uniti il Kenya era sempre coccolato dall’Occidente. In un periodo in cui gli Americani temevano che l’Africa sarebbe finita per diventare il cortile dell’Unione Sovietica, Kenyatta veniva visto come un baluardo contro il “Comunismo”. Torrenti di denaro continuavano a scorrere mentre l’Occidente “democratico” chiudeva un occhio sugli abusi del governo, la mancanza di democrazia e la corruzione galoppante.

Dopo la morte di Kenyatta nel 1978, Daniel Arap Moi, il suo secondo, gli succedette. Ma l’instabilità latente esplose a causa di un tentativo fallito di colpo di stato da parte dell’aviazione militare nel 1982. Moi rapidamente consolidò il potere conferito alla presidenza, esattamente come aveva fatto in precedenza Kenyatta. E l’Occidente chiuse nuovamente un occhio. Sotto il regime di Moi la corruzione, che era sempre presente, raggiunse livelli di un’arte sottile. Rubare i fondi statali divenne la regola, e coloro che beneficiarono delle privatizzazioni contribuirono in cambio al finanziamento del partito KANU. Gli oppositori politici venivano imprigionati senza processo, torturati ed eventualmente eliminati. E ancora una volta l’Occidente non disse nulla.

Il regime monopartitico mise a tacere coloro che dissentivano dal governo. In un’occasione la commissione disciplinare del partito rimproverò un ministro perché “non aveva applaudito abbastanza entusiasticamente” dopo un comizio del presidente. Ma alla fine degli anni ’90, la richiesta di elezioni libere con più partiti divenne irresistibile. Tale fu il malcontento che nemmeno gli imprigionamenti senza processo, le percosse e la tortura riuscirono a fermare il movimento per la democrazia. Il regime fu costretto ad accettare le prime elezioni pluripartitiche nel 1992. Ad ogni modo, l’opposizione era frammentata lungo linee di divisione etnica, e nelle elezioni del 1992 e del 1997 il partito KANU ottenne il potere, per continuare a saccheggiare le risorse statali.

Nel 2002 l’opposizione si riunì intorno ad un singolo candidato e inflisse una sonora sconfitta al KANU. Sotto il simbolo dell’Alleanza Nazionale della Coalizione Arcobaleno l’opposizione vinse a man bassa nel dicembre 2002. Questo sembrò a molti segnare la fine di quasi 40 anni di dominio ininterrotto da parte del KANU. Il nuovo Presidente Mwai Kibaki dichiarò la tolleranza zero nei confronti della corruzione e promise di approvare una nuova Costituzione entro 100 giorni. Fece un’epurazione del sistema giudiziario e promise di sradicare la corruzione. Ma non aveva nemmeno fatto a tempo ad asciugarsi l’inchiostro sulla carta di questi decreti, che vennero alla luce i dettagli di un intreccio miliardario di corruzione. Come nel passato, esponenti di primo piano del governo erano implicati in episodi massicci di corruzione.

Un altro Ruanda?

L’opposizione insiste che Kibaki ha truccato le elezioni di dicembre ed è un presidente illegittimo. Hanno ovviamente ragione su questo. Ma scatenando un’ondata di violenza diretta contro i Kikuyu, i leader dell’opposizione hanno giocato un errore fatale. È possibile che i tumulti e i veri e propri pogrom siano stati spontanei – un’espressione della rabbia accumulata dai giovani disoccupati che dopo tanto tempo è esplosa. Ma i leader non hanno fatto nulla per fermarli, e ci sono prove evidenti che ora li stanno incoraggiando per i propri scopi personali, esattamente come sta facendo il governo. A Eldoret, nel Kenya occidentale, masse di Luo hanno ucciso in un rogo più di trenta persone che avevano cercato rifugio in una chiesa. Simili azioni danno il pretesto agli estremisti Kikuyu di organizzare attacchi di rappresaglia contro i Luo in altre aree.

La posizione di Kibaki secondo cui il Paese dovrebbe andare avanti come se nulla è assurda. L’equilibrio vecchio ed instabile è stato distrutto, e non può più essere ricomposto. La verità è che né Kibaki né Odinga possono risolvere i problemi della società keniota. Il loro è un conflitto tra due politici borghesi, che lottano per ottenere una fetta della torta costituita dallo Stato per loro stessi, le loro famiglie e i loro sostenitori. Ma dal momento che si tratta di un conflitto basato sull’appartenenza a diverse tribù, e dal momento che entrambe le parti accettano “l’economia di mercato”, se una parte vince, l’altra parte deve necessariamente perdere. Questa è una ricetta bella e pronta per conflitti tribali, massacri, caos e genocidi.

La paura si diffonde come un’epidemia incontrollabile. La paura porta a maggiore violenza e la violenza crescente porta ancora più paura, creando un’incontrollabile spirale di violenza. In Kenya si rincorrono le voci. Alcuni dicono che vi sono disaccordi insanabili all’interno della cerchia di Kibaki. Altri affermano che il Presidente è pronto a dichiarare lo stato di emergenza. Tra i Kikuyu, si parla con timore di milizie Luo fedeli a Odinga che verrebbero addestrate nel Sudan meridionale. Tutto questo può produrre un’escalation ancora più terrificante di violenza, dai machete alle mitragliatrici, che causerebbe una vera catastrofe per tutti i Kenioti. L’utilizzo di armi tradizionali, mazze, machete e frecce avvelenate è già abbastanza terribile. Ma se scoppierà una guerra civile aperta, le atrocità recenti sembreranno un’allegra festicciola rispetto a quelle che verranno. Anche se sono già sufficientemente orribili, gli eventi non hanno ancora raggiunto i massacri generalizzati a cui avevamo assistito in Ruanda nel 1994. Ma la prospettiva esiste.

Non è impossibile che il Kenya possa scindersi su linee etniche. La violenza ha già causato la fuga di diverse centinaia di migliaia di Kenioti che appartenevano a minoranze etniche nei rispettivi luoghi di residenza. I Luo sono stati costretti a fuggire dalla Provincia Centrale, mentre i Kikuyu scappano dall’Ovest. Se le cose giungessero alle loro estreme conseguenze, il governo di Kibaki a maggioranza Kikuyu manterrebbe il controllo della ricca area centrale del Paese, fino a Nakuru, a nordovest di Nairobi, mentre l’opposizione Orange di Odinga avrebbe la zona occidentale e gran parte di quella settentrionale. Ma questo lascerebbe irrisolto il problema della Rift Valley. La maggioranza della popolazione Kalenjin che vive lì è ostile alla dominazione Kikuyu. Questo potrebbe facilmente condurre a una sanguinosa guerra civile, portando con sè nuovi orrori.

Fino a poco tempo fa, questa sarebbe parsa una prospettiva incredibile alla maggioranza dei Kenioti. La velocità con cui è crollata l’intera struttura sociale e politica di quello che appariva uno dei paesi più stabili in Africa dimostra la fragilità latente della democrazia borghese in qualunque luogo. Il capitalismo non è stato in grado di risolvere i problemi della popolazione del Kenya, proprio come ha fallito su scala mondiale a dare alla maggior parte delle persone il tipo di vita che aspettavano. Lenin sottolineò che la questione nazionale è in ultima analisi una questione di pane. Il problema principale era, ed è ancora, economico: la crescita economica del Kenya non è stata al passo con la rapida crescita della popolazione, che è una delle più veloci in Africa. Il risultato è una cronica scarsità di lavoro specialmente tra i giovani. La scarsità di terre agricole fertili e la disoccupazione rurale hanno avuto seri effetti.

Non essendo in grado di procurarsi da vivere lavorando in campagna, masse di giovani disoccupati sono emigrati nelle città e marciscono nelle baraccopoli di Nairobi e degli altri centri urbani. Se l’economia fosse in grado di fornire posti di lavoro e case per tutti, gli scontri, il sospetto e la diffidenza tra persone di comunità diverse perderebbero ogni ragione di esistere. Questo vale per il Kenya come per ogni altro Paese al mondo. In questo modo è stata creata una miscela altamente esplosiva, che ora è deflagrata facendo a pezzi la struttura sociale. Se esistesse un partito rivoluzionario, potrebbe dare un’espressione organizzata e cosciente al malcontento delle masse. Ma in assenza di un’alternativa rivoluzionaria, altre forze possono prendere il sopravvento, le forze oscure del particolarismo tribale che hanno le loro radici in un passato distante e non sono ancora state superate.

Le atrocità che sono state commesse sono state portate avanti da elementi sottoproletari e criminali, aizzati da provocatori di pogrom professionisti da una parte e dall’altra. La maggior parte dei Kenioti sono sconvolti da quel che sta accadendo al loro Paese, ma si sentono impotenti di fronte all’ondata di follia collettiva. L’unica forza nella società che sarebbe in grado di fermare la violenza è la classe lavoratrice organizzata. Se i sindacati fossero degni di questo nome, avanzerebbero un’alternativa di classe alla follia tribale. Organizzerebbero milizie operaie armate, legate ai sindacati, per difendere i quartieri operai e mantenere l’ordine, disarmando e punendo coloro che incitano i pogrom.

La natura ha orrore del vuoto. In una situazione in cui moltissimi giovani si riversano nelle strade, o la classe lavoratrice darà al movimento un’espressione organizzata e obiettivi chiari, o cadranno inevitabilmente sotto l’influenza dei sostenitori delle tribù e gli aizzatori di pogrom. Sfortunatamente, l’Organizzazione Centrale dei Sindacati (COTU), la principale centrale sindacale in Kenya, ha adottato una posizione astensionista durante la crisi attuale, argomentando che il problema è stato creato politicamente e dovrebbe essere “risolto politicamente”. I leader del COTU hanno fatto appello a Kibaki affinché risolva la crisi attraverso il negoziato. Si tratta di un tradimento e di un completo abbandono dei propri doveri da parte dei sindacati.

Storicamente, i sindacati kenioti sono stati dominati dal KANU e hanno mantenuto stretti legami con il governo. Nonostante questo, ci sono state importanti lotte per aumenti salariali e per l’occupazione, come nel 2003, quando i lavoratori kenioti organizzarono un’ondata di scioperi che investì tutto il Paese. Questo mostra il potenziale rivoluzionario della classe operaia, che è stato finora indebolito dall’interno dalle politiche di collaborazione di classe della sua dirigenza. La classe lavoratrice deve ricoprire un ruolo attivo, completamente indipendente da ogni partito o leader borghese. Deve battersi per collocarsi alla guida della nazione e condurre la lotta per un cambiamento fondamentale della società, che è quello di cui la stragrande maggioranza della popolazione keniota ha bisogno e desidera.

Ciò di cui c’è bisogno è un vero partito dei lavoratori, al di là tutte le divisioni tribali ed etniche, organizzato per lottare i padroni ed il governo marcio di Kibaki. Un simile partito combatterebbe per rivendicazioni democratiche, a cominciare dalla richiesta di nuove elezioni per spazzare via dal potere Kibaki e la sua cricca corrotta. Ma le elezioni di per sé non risolveranno nulla. “Democrazia” è una parola vuota, a meno che non sia accompagnata da un reale trasferimento di potere al popolo, cioè alla maggioranza della società, costituita da lavoratori e contadini.

La borghesia ha avuto decenni di tempo per mostrare ciò che è in grado di fare per la popolazione del Kenya. E abbiamo visto di cosa è stata capace! La “vetrina” capitalista dell’Africa è stata ridotta nel giro di pochi giorni a villaggi in macerie e cataste di cadaveri. Una tragedia ancora maggiore incombe sulla testa di milioni di uomini, donne e bambini innocenti. I cinici e gli scettici diranno che l’idea del socialismo e dell’unità dei lavoratori è impossibile. No! Quel che è impossibile è per uomini e donne continuare a vivere in questa società capitalista marcia e decadente, una società che distrugge tutto ciò che è umano e dignitoso e riduce le persone al livello degli animali. E se tratti gli uomini come animali, questi si comporteranno come animali.

Alcuni diranno che ciò che noi proponiamo è utopia. Ma ciò che noi proponiamo è una società fondata sulla solidarietà umana e non sull’avidità e il profitto. È questa avidità di profitto ad essere in ultima analisi responsabile per la miseria di milioni di persone in Africa e nel resto del mondo. È la rapace avidità di latifondisti, banchieri e capitalisti, tanto la borghesia elegante di Londra e New York quanto i suoi luogotenenti del tipo di Kibaki, che hanno spogliato l’Africa dei tuoi tesori e ridotto la sua popolazione alla schiavitù. Questo, dicono quanti criticano il marxismo, è “pratico”, mentre quello che noi invochiamo non lo è.

Ma noi ne abbiamo abbastanza delle loro politiche “pratiche”, e abbiamo visto fin troppo spesso dove conducono. Ciò che vediamo in Kenya è barbarie, ma la barbarie è il risultato del fallimento del capitalismo: incapacità di dare lavoro a milioni di giovani disoccupati, che sono condannati a marcire nelle baraccopoli di Nairobi; incapacità di dare da mangiare e di che vestirsi alla popolazione, di garantire alloggi decorosi, scuole e ospedali: in una parola, incapacità di garantire perfino le più basilari condizioni per un’esistenza civile. Negano alla popolazione una vita civile, e poi si lamentano della barbarie! Ma il capitalismo in ultima analisi significa barbarie, e ciò che vediamo sulle strade di Nairobi oggi può ripetersi anche nella più civile nazione della terra, se a questo sistema degenerato si consentirà di continuare ancora per molto. La scelta è tra socialismo e barbarie, non solo in Kenya ma su scala mondiale.

Allora l’umanità è inevitabilmente condannata a decadere nella barbarie? Naturalmente no! C’è una forza che può evitarlo. Questa forza è la classe lavoratrice internazionale, una classe che è in grado di superare le vecchie barriere di razza, colore, nazionalità e religione. Karl Marx disse: “i lavoratori non hanno nazione”. La classe operaia può sopravvivere soltanto sviluppando l’unità di classe, superando tutte le distinzioni di colore, razza, appartenenza tribale e credo religioso. Noi non siamo né Kikuyu né Luo, né Cattolici né Protestanti, né bianchi né neri. Siamo fratelli e sorelle che lottano per la stessa causa. Siamo soldati della rivoluzione socialista mondiale. Questo è l’unico messaggio di speranza per i lavoratori e i contadini del Kenya e dell’intero continente africano.

Londra, 5 febbraio 2008

Source: FalceMartello  

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