Il 15 ottobre abbiamo visto a Roma una delle più grandi manifestazioni degli ultimi anni. 300mila, forse mezzo milione di persone hanno invaso le strade della capitale, ricongiungendosi idealmente alla manifestazione di un anno fa promossa dalla Fiom. Lo hanno fatto però a un livello più alto.
In primo luogo perché il 15 ottobre era parte di una mobilitazione internazionale lanciata dagli indignados di Spagna e Grecia e soprattutto perché abbiamo assistito a un salto di qualità nelle parole d’ordine. La protesta era contro la Bce e contro l’austerità, contro il pagamento del debito e la dittatura delle banche. La lettera di Draghi e Trichet all’Italia è stata rispedita al mittente.
Questa lettera, spedita all’inizio di agosto e resa pubblica all’inizio di settembre rappresenta una vera dichiarazione di guerra ai lavoratori. Il presidente della Bce, Trichet e il suo successore, Draghi, ordinano ai governi italiani, quello attuale e quelli futuri, cosa fare. Né più né meno, gli stessi provvedimenti che si stanno applicando in Grecia.
Anticipare il pareggio di bilancio al 2013 “principalmente attraverso tagli di spesa”. Liberalizzare i servizi pubblici locali “attraverso privatizzazioni su larga scala”. “Ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione.” L’accordo del 28 giugno “si muove in questa direzione”, ma evidentemente non era abbastanza. Bisogna rivedere “le norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti”. Il ministro Sacconi ha risposto prontamente a tali sollecitazioni, inserendo l’ormai famigerato articolo 8 nella manovra finanziaria di settembre.
Ma non è finita: la lettera propone l’aumento dell’età pensionabile per le donne nel settore privato e “una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi.”
Il tutto sarebbe stato da inserire in un decreto legge da promulgare entro fine settembre. Detto, fatto. E se non è stato possibile fare tutto, per mancanza di tempo o perché il governo Berlusconi non è abbastanza forte per imporre una simile terapia d’urto, ci penserà qualcun altro. E già, perché da Napolitano fino all’ultimo peones della camera, non c’è nessuno che si sogna di mettere in discussione la lettera della Bce. Anzi. Confindustria attacca Berlusconi perché non attua le (contro)riforme necessarie, e subito viene arruolata dal Pd e dai suoi giornali nell’opposizione. Pd che per bocca di Bersani si affretta a fugare ogni dubbio: “Se ci fosse stato un altro governo la Bce non avrebbe avuto bisogno di tante puntualizzazioni. Noi il pareggio di bilancio lo garantiamo.” (l’Unità, 4 ottobre)
L’arroganza di questi signori non ha limiti ma il cinismo con cui hanno illustrato le proprie convinzioni ha comunque alcuni innegabili pregi. Ha chiarito, agli occhi dei più, chi ha in mano le scelte economiche dei singoli stati: i governi non decidono nulla, a dettare legge sono le multinazionali e i grandi gruppi finanziari e bancari. Mai così attuali sono le parole del Manifesto del Partito comunista secondo cui i governi sono i “comitati d’affari della borghesia”. Ha svelato come sia illusorio pensare di andare al governo e promuovere un altro tipo di politiche senza rompere con le compatibilità del sistema capitalista.
Ha creato una chiara linea di demarcazione: o si è con i dettami della Bce o si è contro. Non è possibile stare in mezzo al guado, conciliare il rigore dei conti con lo stato sociale, la tutela dei salari e dei diritti sui luoghi di lavoro con la logica dei mercati. Con uno slogan azzeccato il movimento “occupy Wall Street” ha individuato i veri colpevoli della crisi, quell’1% di ricchissimi che controllano i destini dell’umanità in un sistema dominato dalla logica del profitto.
La vera novità è che questi ragionamenti non sono più patrimonio esclusivo di ristretti settori politicizzati. Che il sistema non funzioni e che la colpa sia di un pugno di banchieri e capitalisti comincia a diventare una consapevolezza diffusa nelle piazze da Atene a New York, da Madrid al Cairo. Tale consapevolezza sta mettendo radici anche nelle piazze italiane, a cominciare da quella del 15 ottobre.
Al tempo stesso questa radicalizzazione non trova rappresentanza, con i partiti che pure hanno promosso la manifestazione pronto a saltare sul carrozzone del “nuovo Ulivo”, chi da protagonista, come nelle intenzioni di Sel, e chi, un po’ come un “imbucato” in una festa (vedi la maggioranza del Prc) sostiene il “fronte democratico” con Bersani e compagnia.
I mass media cercano di oscurare il significato profondo di una manifestazione di massa come quella del 15 ottobre concentrandosi sulle devastazioni dei “violenti”, che occupano pagine e pagine dei quotidiani e monopolizzano i telegiornali. L’ipocrisia di costoro è ributtante. Sono gli stessi massmedia che definiscono le guerre imperialiste in Afghanistan e i Libia “missioni di pace”, che preferiscono tacere sul massacro quotidiano che avviene nei cantieri e nelle fabbriche, che derubricano come “disgrazie” il massacro dei “clandestini” (nemmeno degni di essere definiti uomini e donne) che annegano sulle carrette che solcano il Mediterraneo per approdare sulle nostre coste. Questa è la vera violenza quotidiana, quella del capitalismo.
Quando critichiamo nettamente chi spacca i vetri di una banca o incendia un auto (spesso di un proletario) lo facciamo non per una questione morale ma perché simili azioni non fanno avanzare di un millimetro la coscienza di quei lavoratori e di quei giovani che erano in corteo o che stavano a casa, ma anzi servono come pretesto per la repressione indiscriminata e brutale delle “forze dell’ordine”, nella più classica tattica già illustrata da Cossiga: “Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri.”
I fatti del 15 ottobre pongono il problema non di un maggior controllo delle manifestazione da parte di polizia e carabinieri, che separino i “buoni” dai “cattivi”, ma dell’autodifesa dei cortei sia nei confronti della repressione di Stato che dei provocatori.
Tuttavia il problema non è solo organizzativo, ma soprattutto politico. Quando lo scontro si fa duro e si vogliono porre in discussione le fondamenta di questo sistema, il sistema reagisce.
Il nostro programma e la nostra strategia deve essere all’altezza. La piazza del 15 ottobre può essere un passaggio importante per lo sviluppo delle mobilitazioni, se si riescono a generalizzare le lotte che oggi sono in campo, dall’Irisbus a Fincantieri. Se si riesce a produrre un’alternativa alla quotidiana devastazione capitalista delle nostre vite, che rompa i confini della logiche dell’unità nazionale, attraverso la proposta di un polo della sinistra di classe alternativo al centrodestra e al centrosinistra. Rifondazione comunista può giocare un ruolo chiave in tutto ciò come acceleratore e forza organizzatrice di questi processi. Questo è il senso del nostro impegno per l’affermazione di una linea alternativa, quella del secondo documento, all’ottavo congresso del Prc che si sta svolgendo in queste settimane.