L’8 marzo 2017 non sarà un 8 marzo come tutti gli altri. Viviamo in un sistema che non è più in grado nemmeno di far finta di garantire condizioni di vita decenti alla maggioranza della popolazione e questo si riflette in modo particolarmente odioso soprattutto sulle donne, ma da qualche mese a questa parte in decine di paesi in tutto il mondo abbiamo visto centinaia di migliaia di donne esprimere tutta la loro rabbia contro il sistema, scendendo in piazza per lottare per la difesa dei propri diritti.
Lo scorso ottobre decine di migliaia di donne polacche hanno scioccato il mondo con il loro sciopero contro le ulteriori restrizioni al diritto di aborto. L’aborto in Polonia è illegale, viene concesso solo in caso di violenza, di gravi danni all’embrione o di pericolo di vita per la donna. Il governo nazionalista ha pensato che anche queste concessioni fossero troppo liberali, un’arroganza pagata a caro prezzo: le donne hanno rotto una pace sociale che durava da oltre 25 anni e la proposta di legge è stata ritirata.
In Brasile l’aborto è garantito nelle stesse forme che in Polonia. L’anno scorso il movimento delle donne ha impedito ulteriori restrizioni avanzate dal presidente della Camera Cunha che pretendeva di criminalizzare persino le donne vittime di violenza sessuale.
Sempre lo scorso ottobre in Argentina, Cile, Uruguay, Bolivia, Messico si son viste mobilitazioni di massa contro la violenza sulle donne, in seguito ad un omicidio di una violenza inaudita: Lucia Perez, una ragazzina di 16 anni a Mar de la Plata è stata sequestrata, violentata, torturata e impalata.
In Turchia, la mobilitazione ha costretto il governo a ritirare la legge sul cosiddetto matrimonio riparatore, con il quale la donna non solo doveva accettare la violenza in silenzio, ma pure accettare il violentatore come marito. L’arroganza del governo turco, che dallo scorso agosto, impunito, ha messo in galera migliaia di attivisti di sinistra, insegnanti, intellettuali, dipendenti pubblici, è stato costretto alla ritirata dal movimento.
È sotto gli occhi di tutti quanto accade negli Stati Uniti contro Trump, un movimento di milioni, che unisce la contestazione delle donne a quella più generale contro le sue politiche reazionarie.
Non c’è dubbio che l’inasprimento della violenza abbia alimentato questo movimento di donne, ma esso si è anche inserito in un clima generale di contestazione di massa delle condizioni di vita e di chi sta al governo.
Anche in Italia almeno 200mila persone erano in corteo a Roma lo scorso novembre. Almeno 7 milioni di donne sono vittime di una qualche forma di violenza, in Europa sono il 33% della popolazione femminile. L’anno scorso in Italia sono state uccise 116 donne, il 75% di loro da un familiare e il 67% dal proprio partner. Nonostante i mass media gradiscano enfatizzare quando c’è di mezzo un immigrato, per fomentare campagne razziste e inasprire repressione e condanne penali, queste percentuali dimostrano che il problema non ha nulla a che vedere con l’ordine pubblico.
La violenza contro le donne è strettamente connessa al sistema economico nel quale viviamo e dunque anche la lotta contro la violenza implica una lotta contro il capitalismo.
Il capitalismo è violenza
Le tragedie, spesso di una violenza incomprensibile, sono collegate direttamente alle pressioni della vita quotidiana sulle famiglie. E non c’è dubbio che la pressione sia aumentata con la crisi economica. In Italia, la maggior parte degli omicidi sono avvenuti in Lombardia, una delle zone più sviluppate economicamente. Non possiamo trattare il fenomeno semplicisticamente come il frutto di un’arretratezza culturale. In Italia meno del 46% delle donne sono occupate, una delle percentuali più basse in Europa, ma anche quando le donne lavorano, la loro indipendenza economica non è garantita. La mancanza di stato sociale può rendere l’occupazione un fardello intollerabile, soprattutto se si hanno bambini o parenti anziani da accudire. Questo significa che non è sufficiente rivendicare il lavoro. È necessaria una visione generale sulle condizioni di vita, prendendo in considerazione lo stato sociale, la scuola, il sistema sanitario e le pensioni.
A questo dobbiamo aggiungere che in virtù del ruolo sociale assegnato alle donne in questo sistema economico, esiste una battaglia ideologica della classe dominante volta a condizionare pesantemente la libera sessualità delle donne al fine di renderla strettamente dipendente dai compiti di riproduzione e di cura.
La famiglia, in tutte le sue molteplici evoluzioni, è l’unico ambito della società dove risiede la responsabilità ultima della cura degli esseri umani e in essa la donna svolge un ruolo fondamentale, se non altro perché sono le donne che partoriscono e questo aspetto biologico condiziona il loro ruolo nella famiglia. Questa è la ragione per la quale tante lotte durissime sono state necessarie per conquistare il diritto all’aborto, che in Italia esiste, ma compromesso da quello di obiezione di coscienza. Ben il 70% del personale medico esercita questa opzione, rifiutandosi di praticarlo, il che significa che questo importante diritto, in molti ospedali non è garantito. E anche coloro che riescono ad accedere al diritto di aborto si ritrovano vittime delle campagne oscurantiste di criminalizzazione da parte della Chiesa cattolica e del Movimento per la vita.
Il corpo delle donne non è pienamente a loro disposizione.
E questo fatto, inserito nel contesto sociale ed economico dato, condiziona ulteriormente i rapporti fra i sessi, favorendo l’idea di un rapporto proprietario degli uomini sulle donne.
Studi e statistiche dimostrano che la violenza sulle donne tende a manifestarsi proprio in quei casi dove le donne si sentono anche solo psicologicamente più fragili, vittime dell’asprezza della vita e spesso costrette ad appoggiarsi, economicamente ed emotivamente, sul loro partner. Relazioni forzate e sfruttamento generale della figura femminile sono le condizioni tipiche nelle quali matura negli uomini il carattere patologico del senso di proprietà della donna. E questo rapporto ha trovato storicamente anche il suo riflesso nel Codice penale e nel diritto di famiglia, se pensiamo che in Italia i reati di violenza sessuale erano ascritti nella parte dei delitti “contro la moralità e il buon costume” e solo a partire dal 1996 sono diventati “contro la persona”.
Alla fine degli anni ’80, frutto dello sviluppo del movimento delle donne, sono nati i centri anti-violenza, prevalentemente associazioni private autogestite dalle donne, che si sono diffusi anche grazie ai finanziamenti erogati sporadicamente dagli enti locali. Ma, nel tempo, i finanziamenti si sono ridotti, e molti centri hanno chiuso i battenti. I centri sono certamente ambiti importanti, ma non sufficienti a combattere il fenomeno, perché non si combatte la violenza solo lavorando sull’autostima e l’autonomia delle donne.
Libertà e capitalismo
Già l’anno scorso il movimento per il diritto al matrimonio per le coppie omosessuali aveva mostrato l’indignazione di ampie fasce giovanili contro i bigotti dentro e fuori del governo. Alla fine il governo Renzi ha approvato una versione compromissoria della legge (non si parla di matrimonio, ma di unioni civili e si nega alla coppia il diritto sia all’adozione che ad avere la tutela dei figli dei partner). Tutte le associazioni hanno applaudito il coraggio del governo, dimenticando non solo i compromessi, ma anche che quello stesso governo è quello che aveva approvato il Jobs act, i tagli alle pensioni, al sistema sanitario, tutte misure che hanno significato un aumento dei licenziamenti e della disoccupazione, un colpo importante non solo al movimento operaio, ma soprattutto per quei settori di lavoratori più deboli e discriminati (a partire dagli immigrati, le donne e anche gli omosessuali).
I diritti civili non si librano nell’aria, a disposizione di chiunque, ma sono strettamente connessi con la vita materiale di chi li esercita. Come è possibile esercitare il diritto a vivere liberamente le proprie relazioni affettive e in generale la propria vita, in un regime di costante precarietà lavorativa, di assenza di servizi sociali, di affitti inaccessibili, ecc.?
Dobbiamo lottare per rimuovere le basi sociali che alimentano la violenza e le discriminazioni.
Pensiamo che la difficoltà del movimento, almeno qui in Italia, a stabilire una strategia conflittuale per modificare realmente lo stato di cose presente sia legata alla composizione di classe di chi ne egemonizza la testa che si accontenta di tenersi questo governo, limitandosi a criticare qualche legge di quelle approvate da Renzi, senza nemmeno porsi il problema di come lottare contro chi porta avanti interessi diametralmente opposti a quelli delle lavoratrici e dei lavoratori. Chi vive una vita agiata, le signore, le intellettuali d’alto rango, ecc. possono librarsi amabilmente in voli pindarici sui diritti, avendo una bella famiglia, una bella casa, con tutti i comfort e chi si occupa di curarla al posto loro.
Tuttavia questo movimento delle donne, di portata internazionale, ha la possibilità di mettere in discussione la classe dominante e i suoi governi.
È necessario cogliere questa occasione per elaborare una strategia vincente e dichiarare guerra ai veri responsabili del continuo peggioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice.
Negli ultimi anni sia i governi di centro sinistra che quelli di centro destra hanno attaccato i nostri interessi. In meno di tre anni il governo Renzi è riuscito a imporre la libertà di licenziamento senza giusta causa, tagli importanti alla scuola pubblica, al sistema sanitario, alle pensioni e agli enti locali, ha liberalizzato lo sfruttamento di suolo pubblico, ha spinto per attivare le cosiddette grandi opere, regali agli speculatori a scapito di servizi realmente utili. Il tutto condito con campagne arroganti e grottesche come quella sulla gioia di vivere e procreare, il famoso Fertility Day. L’ultimo schiaffo, il decreto salva banche: 20 miliardi di denaro pubblico messo a disposizione dei banchieri e del padronato. In questi anni abbiamo assistito ad un trasferimento immane di risorse dalle tasche dei lavoratori in quelle dei padroni.
La rabbia di chi lavora si è espressa nel referendum del 4 dicembre, Renzi si è dimesso, ma è evidente a tutti che il governo in carica è identico a quello precedente.
Una piattaforma di lotta
L’assemblea di Non una di meno a Bologna del 4-5 febbraio scorso ha visto la presenza di oltre duemila donne che hanno approvato una piattaforma di otto punti in cui si fa appello alle organizzazioni sindacali a convocare uno sciopero delle donne. Otto punti che rivendicano maggiore protezione per le donne, il diritto all’aborto, investimenti nella cultura delle donne, contro sessismo, razzismo e misoginia, ma anche la fine del lavoro precario, un salario minimo garantito, permessi di soggiorno per tutti, contro la riforma Renzi della scuola. Siamo stupiti dal fatto che, in relazione al diritto di aborto, subito dopo la rivendicazione dell’abolizione dell’obiezione di coscienza si richieda la depenalizzazione dell’aborto clandestino causato dall’alto tasso di obiezione, “perché ognun* possa esercitare la sua capacità di autodeterminarsi”. Una richiesta difensiva, ma anche pericolosa perché apre all’idea che possa esistere un aborto clandestino. Non si può eludere la battaglia per l’applicazione del pieno diritto all’aborto tutelato e commisurato alle esigenze delle donne nelle strutture pubbliche. E l’unico modo per garantire questo diritto è l’abolizione del diritto all’obiezione di coscienza del personale medico, che implicherebbe il licenziamento in tronco di chi non si attiene all’obbligo di prestare il servizio.
Manca anche una richiesta di ripristino della rete pubblica di consultori, peraltro previsti dalla 194 (la legge vigente sul diritto all’aborto) all’interno della quale vanno inseriti i centri anti-violenza, che per quanto si possa dibattere sulle loro caratteristiche, è certo che devono essere pubblici. Certo, le strutture pubbliche spesso sono inaffidabili, insensibili, gli operatori non adeguatamente formati mostrano il volto aggressivo dello Stato. Non è di questo che una donna ha bisogno. Tuttavia dobbiamo lottare per una rete garantita dal denaro pubblico e presente capillarmente su tutto il territorio, affinché ogni donna, dalla grande metropoli fino all’ultimo paesino sperduto della Calabria, indipendentemente dal suo livello economico e culturale possa accedere ad uno spazio del quale avere fiducia e trovare le risposte alle sue problematiche.
Per questa ragione vanno rivendicati finanziamenti pubblici, una rete capillare garantita e una gestione collegiale, rappresentativa delle organizzazioni sindacali, dei movimenti delle donne e anche delle donne presenti sul territorio, sia dei consultori che dei centri anti-violenza.
E potremmo aggiungere altri punti, come un piano di spesa per l’edilizia pubblica, per un rilancio autentico dello stato sociale che liberi le donne dalla schiavitù del lavoro domestico: una rete capillare di asili nido e scuole materne gratuiti, che copra l’effettivo orario lavorativo, una rete di strutture pubbliche di sostegno per i parenti anziani, per non parlare di servizi di lavanderia, e anche la promozione di società pubbliche che forniscano a livello condominiale servizi di ristorazione e di pulizia domestica.
Per garantire i finanziamenti ad un piano del genere, va detto che non c’è alternativa se non quella di espropriare le banche e i grandi patrimoni, che in questi anni hanno assorbito ricchezze enormi, e mettere queste risorse a disposizione delle necessità sociali sotto il controllo democratico di chi lavora.
L’appello al movimento operaio
Il movimento ha fatto appello ai sindacati per promuovere lo sciopero delle donne l’8 marzo.
Si potrebbe supporre che questo appello implichi l’obiettivo di promuovere l’astensione dal lavoro, per arrecare un danno e imporre, con rapporti di forza adeguati, le proprie rivendicazioni. L’obiettivo di uno sciopero, in generale, è questo e per questo va reso partecipato ed efficace. Tuttavia all’appello non è seguita una strategia per ottenerlo.
D’altra parte i sindacati hanno accettato tutte le controriforme sopraelencate. La Cgil in particolare ha la responsabilità di aver abbandonato il movimento dei lavoratori nel bel mezzo della battaglia, prima rinunciando a dicembre del 2014 a portare avanti la lotta contro il Jobs act, poi facendo la stessa cosa nel maggio del 2015 contro la “Buona scuola”, nonostante la partecipazione di massa a quegli scioperi. La segretaria della Cgil Susanna Camusso ha avuto gioco facile nel sottrarsi alla richiesta aprendo alla possibilità per le strutture periferiche del sindacato di promuovere lo sciopero.
L’appello si è dunque limitato ad un’operazione diplomatica fra i gruppi femministi che l’hanno elaborato e le burocrazie sindacali, che solo in minima parte hanno risposto. La convocazione dello sciopero è arrivata infatti, oltre che dai sindacati extraconfederali (Usb, Cobas, Cub, Usi, Sgb), dalla Flc-Cgil, ma più con l’obiettivo di fornire una copertura legale alle donne che già erano intenzionate a partecipare alle iniziative dell’8 marzo, che non di organizzare una giornata di lotta che blocchi il paese.
Non possiamo accontentarci delle contestazioni che i sindacalisti hanno subito in qualche assemblea locale.
Dobbiamo lavorare per mettere in crisi queste burocrazie sindacali, promuovendo un movimento reale dal basso, in tutte le strutture sindacali, nei luoghi di lavoro, coinvolgendo tutto il movimento delle lavoratrici, dei lavoratori, dei giovani che blocchi il paese, che mostri la forza reale di questa rabbia, costringa la direzione sindacale a convocare un vero sciopero, uno sciopero generale e politico, per arrivare alla caduta del governo. Questo deve essere l’obiettivo, altro che proporre al governo un piano anti-violenza, così come emerso dalle assemblee di Non una di meno, sappiamo bene che fine farebbe!
Movimenti di massa si stanno imponendo in tutto il mondo e mettono in discussione il capitalismo e le sue regole. Che questi movimenti siano di ispirazione anche qui in Italia, per uscire dalle logiche delle manifestazioni rituali, dalla diplomazia di ceto politico e si metta al centro la necessità di costruire una vera alternativa, dove le risorse economiche siano in mano a chi lavora per costruire una società che la faccia finita con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla donna.