Gli spiriti semplici credono che la condizione regale consista nella persona del re, nel suo mantello di ermellino e nella sua corona, nella sua carne e nel suo sangue. In realtà, questa condizione regale è un rapporto tra uomini. Il re è re solo perché nella sua persona si riflettono gli interessi e i pregiudizi di milioni di uomini. Quando questi rapporti sono ripudiati dal corso della storia, il re diviene un personaggio consunto, dal labbro pendente. In proposito si potrebbe chiedere le sue impressioni ancora vive a colui che una volta era chiamato Alfonso XIII1.
Il capo per grazia del popolo si distingue dal capo per grazia di dio in quanto è costretto, se non proprio ad aprirsi la strada, ad aiutare le circostanze ad aprirgliela. Ma il capo resta sempre un rapporto tra uomini, un’offerta individuale in risposta ad una domanda collettiva. Le discussioni sulla personalità di Hitler sono tanto più vivaci quanto più si ricerca in lui il segreto della sua vittoria. Sarebbe, tuttavia, difficile trovare un’altra figura politica che sia in eguale misura un nodo di forze storiche impersonali. Non era dato a un qualsiasi piccolo borghese diventare Hitler, ma una particella di Hitler si trova in qualsiasi piccolo borghese.
Il rapido sviluppo del capitalismo tedesco prima della guerra non significava affatto una pura e semplice distruzione delle classi medie. Gettando in rovina certi strati piccolo‑borghesi, il capitalismo ne creava altri: artigiani e piccoli bottegai attorno alle fabbriche, tecnici e impiegati all’interno delle fabbriche. Ma mantenendosi in vita ed anzi aumentando di numero – la piccola borghesia vecchia e nuova rappresenta un po’ più della metà del popolo tedesco – le classi medie perdevano ogni ombra di indipendenza, vivevano alla periferia della grande industria e del sistema bancario, si nutrivano delle briciole della tavola dei monopoli e dei cartelli, e dell’elemosina spirituale dei loro teorici e politici professionali.
Sulla via dell’imperialismo tedesco la sconfitta ha alzato un muro. La dinamica esterna si è trasformata in dinamica interna. La guerra si è mutata in rivoluzione. La socialdemocrazia, che aveva aiutato gli Hohenzollern a condurre la guerra sino alla sua tragica conclusione, non ha permesso al proletariato di condurre sino in fondo la rivoluzione. La democrazia di Weimar ha avuto bisogno di quattordici anni per giustificare la sua esistenza. Il Partito comunista chiamava gli operai ad una nuova rivoluzione, ma si dimostrava incapace di dirigerla. Il proletariato tedesco passava attraverso gli alti e bassi della guerra, della rivoluzione, del parlamentarismo e dello pseudobolscevismo. Mentre i vecchi partiti borghesi si esaurivano completamente, la forza dinamica della classe operaia era minata.
Il caos del dopoguerra ha colpito gli artigiani, i commercianti e gli impiegati non meno duramente degli operai. La crisi agraria colpiva i contadini. Il deperimento delle classi medie non poteva significare la loro proletarizzazione perché il proletariato stesso dava vita ad un gigantesco esercito di disoccupati cronici. L’impoverimento della piccola borghesia, a mala pena nascosto dietro le cravatte e le calze di seta artificiale, ha corroso tutte le credenze ufficiali e, prima di tutto, la dottrina del parlamentarismo democratico.
Il grande numero dei partiti, la febbre fredda delle elezioni, il mutamento continuo dei ministri complicavano la crisi sociale in un caleidoscopio di sterili combinazioni politiche. Nell’atmosfera surriscaldata dalla guerra, dalla sconfitta, dalle riparazioni, dall’inflazione, dall’occupazione della Ruhr, dalla crisi, dalla miseria e dalla disperazione, la piccola borghesia si levava contro tutti i vecchi partiti che l’avevano ingannata. Le recriminazioni violente dei piccoli proprietari precipitati nella bancarotta, dei loro figli universitari senza impiego e senza clienti, delle loro figlie senza dote e senza fidanzati, esigevano ordine e una mano di ferro.
La bandiera del nazionalsocialismo era levata da uomini provenienti dai quadri inferiori e medi del vecchio esercito. Coperti di decorazioni gli ufficiali e i sottufficiali non potevano ammettere che il loro eroismo e le loro sofferenze non solo erano state vane, ma neppure garantivano loro un particolare diritto alla riconoscenza. Donde il loro odio per la rivoluzione e per il proletariato. D’altra parte, neppure volevano accettare di essere relegati dai banchieri, dagli industriali, dai ministri nei modesti posti di contabili, di ingegneri, di funzionari delle poste e di insegnanti pubblici. Donde il loro socialismo.
Sull’Yser e di fronte a Verdun avevano imparato a sacrificarsi, a sacrificare gli altri e a parlare un linguaggio di comando ai piccolo‑borghesi delle retrovie. Così questi uomini erano divenuti dei capi.
All’inizio della sua carriera politica, Hitler si è distinto, forse, solo per un maggiore temperamento, per una voce più robusta, per una mediocrità intellettuale più sicura di sé. Non ha portato al movimento nessun programma se non la sete di vendetta del soldato offeso. Hitler ha cominciato con ingiurie e lamentele contro le condizioni di Versailles, contro il carovita, contro la mancanza di rispetto verso i sottufficiali valorosi, contro gli intrighi dei giornalisti e dei banchieri della religione di Mosè. Di uomini rovinati, di gente che stava per affogare, di gente piena di cicatrici, dalle ferite ancora fresche, nel paese ce n’erano a sufficienza. Ciascuno di essi voleva battere il pugno sulla tavola. Hitler poteva farlo meglio degli altri. È vero che non sapeva come rimediare al male. Ma i suoi discorsi risuonavano ora come un ordine, ora come una preghiera. Come i malati senza speranza, le classi condannate non si stancano di abbandonarsi ad ogni sorta di lamenti o di ascoltare consolazioni. Tutti i discorsi di Hitler erano su questo tono. Il sentimentalismo informe, l’assenza di una disciplina intellettuale, l’ignoranza unita alle letture stravaganti, tutti questi segni negativi si trasformavano in segni positivi: consentivano a Hitler di accumulare nella bisaccia del nazionalsocialismo ogni sorta di malcontenti e di condurre la massa dove essa stessa lo sospingeva. Delle sue improvvisazioni iniziali rimaneva nella memoria dell’agitatore solo quello che riscuoteva approvazione. Le sue idee politiche erano frutto dell’acustica oratoria. Così avveniva la scelta delle parole d’ordine. Così si accumulava il programma. Così dalla materia bruta usciva fuori il “capo”.
Sin dall’inizio Mussolini ha saputo valutare la materia sociale più consapevolmente di Hitler, cui il misticismo poliziesco di un Metternich è più vicino che l’algebra politica di un Machiavelli.
Dal punto di vista intellettuale Mussolini è più coraggioso e più cinico. Basti dire che l’ateo di Roma si serve della religione come della polizia e della giustizia, mentre il suo collega di Berlino crede realmente alla infallibilità della Chiesa romana. Nell’epoca in cui il futuro dittatore italiano considerava ancora Marx come “l’immortale maestro di noi tutti”, difendeva non senza abilità la teoria che nella società contemporanea vede anzitutto il rapporto di due forze fondamentali, la borghesia e il proletariato.
È vero – scriveva Mussolini nei 1914 – che tra queste esistono numerosi strati intermedi che formano una “specie di tessuto connettivo della collettività umana”, ma “nei periodi di crisi le classi medie sono attirate, secondo i loro interessi e le loro ideologie, verso l’una o l’altra delle classi fondamentali”. Generalizzazione importante. Come la medicina scientifica offre la possibilità non solo di guarire i malati, ma anche di spedire, per la via più breve, un uomo sano all’altro mondo, così l’analisi dei rapporti di classe, destinata dal suo creatore alla mobilitazione del proletariato, ha dato a Mussolini, passato al campo opposto, la possibilità di mobilitare le classi medie contro il proletariato. Hitler ha compiuto la stessa opera traducendo l’ideologia del fascismo nel linguaggio della mistica tedesca.
I bracieri su cui brucia l’empia letteratura del marxismo illuminano vivamente la natura di classe del nazionalsocialismo. Sinché i nazisti hanno agito come partito e non come potere statale, non hanno avuto quasi accesso alla classe operaia. D’altra parte, la grande borghesia, anche quella che sosteneva Hitler con il suo denaro, non considerava questo partito come il proprio. La “rinascita” nazionale si appoggiava interamente sulle classi medie, cioè la parte più arretrata della nazione, il più pesante fardello della storia. L’arte politica consisteva nel legare insieme la piccola borghesia in una comune ostilità verso il proletariato. Che cosa si deve fare perché le cose vadano meglio? Anzitutto, schiacciare coloro che stanno sotto. Impotente di fronte al grande capitale, la piccola borghesia spera di riconquistare sin d’ora una dignità sociale mandando in rovina gli operai. I nazisti definiscono il loro colpo di Stato con il nome usurpato di rivoluzione. Il fascismo lascia intatto il sistema sociale. Considerato in sé, il colpo di Stato di Hitler non ha neppure diritto di essere chiamato controrivoluzione. Ma non si può considerare separatamente. È il compimento di un ciclo di sconvolgimenti cominciati in Germania nel 1918. La rivoluzione di novembre, che aveva dato il potere ai consigli degli operai e dei soldati, era, come tendenza fondamentale, proletaria. Ma il partito che si trovava alla testa del proletariato ha riconsegnato il potere alla borghesia. In questo senso, la socialdemocrazia ha inaugurato l’era della controrivoluzione prima che la rivoluzione avesse potuto portare a termine il suo lavoro. Tuttavia, sinché la borghesia dipendeva ancora dalla socialdemocrazia, cioè dagli operai, il regime continuava a basarsi su un compromesso. Ma se la situazione internazionale ed interna del capitalismo ha salvato la borghesia dalla rivoluzione proletaria, il fascismo, a sua volta, è venuto a liberare la borghesia dalla socialdemocrazia. Il colpo di Stato di Hitler non è che l’ultimo anello della catena degli spostamenti controrivoluzionari.
La piccola borghesia è ostile all’idea dell’evoluzione, perché l’evoluzione va inevitabilmente contro di essa. Il progresso non le ha portato niente se non dei debiti da pagare. Il nazionalsocialismo ripudia non solo il marxismo ma anche il darwinismo. I nazisti maledicono il materialismo, perché le vittorie della tecnica sulla natura significano la vittoria del grande capitale sul piccolo. I capi del movimento liquidano il razionalismo – perché essi non possiedono che intelletti di secondo o di terz’ordine, ma prima di tutto perché il loro ruolo storico non ammette che un pensiero sia elaborato sino in fondo. La piccola borghesia ha bisogno di un’istanza superiore al di sopra della natura e della storia, al riparo dalla concorrenza, dall’inflazione, dalla crisi e dalla vendita all’asta. Alla evoluzione, alla concezione materialistica, al razionalismo – al XX, al XIX e al XVIII secolo – viene contrapposto l’idealismo nazionale come fonte di ispirazione eroica. La nazione di Hitler è l’ombra mitologica della piccola borghesia stessa, delirio patetico che le mostra il regno millenario sulla terra.
Per elevare la nazione al di sopra della storia, le si assicura il punto d’appoggio della razza. La storia è giudicata come l’emanazione della razza. Le qualità della razza sono stabilite indipendentemente dalle mutevoli condizioni sociali. Respingendo la concezione economica come inferiore, il nazionalsocialismo scende di un gradino: dal materialismo economico al materialismo zoologico.
La teoria della razza, che sembra escogitata per un autodidatta pretenzioso che voglia offrire una chiave universale di tutti i misteri della vita, è penosa soprattutto dal punto di vista della storia delle idee. Per creare la religione del puro sangue germanico, Hitler ha dovuto prendere a prestito di seconda mano le idee del razzismo da un francese, diplomatico e scrittore dilettante, il conte de Gobineau2. La metodologia politica, l’ha trovata bell’e pronta presso gli italiani, dato che Mussolini si era servito largamente della teoria della lotta di classe di Marx. Il marxismo stesso era il frutto della fusione tra la filosofia tedesca, la storia francese e l’economia inglese. Risalendo la genealogia delle idee, anche le più reazionarie e le più stupide, non si trovano tracce di razzismo.
L’immensa povertà della filosofia nazionalsocialista non ha impedito alle scienze universitarie di entrare a vele spiegate nella rada di Hitler, quando la sua vittoria è stata sufficientemente netta. Gli anni del regime di Weimar erano stati, per la maggioranza della plebe professorale, un’epoca di turbamento e di inquietudine. Gli storici, gli economisti, i giuristi si smarrivano in congetture per sapere quale tra i criteri di verità in contrasto fosse il più giusto, cioè quale campo si sarebbe trovato alla fine padrone della situazione. La dittatura fascista pone fine ai dubbi dei Faust e alle esitazioni degli Amleti della cattedra universitaria. Dal crepuscolo della relatività parlamentare, la scienza è entrata di nuovo nel regno dell’assoluto. Einstein è stato costretto a piantare le tende fuori della Germania.
Sul piano politico, il razzismo è una varietà tronfia e presuntuosa dello sciovinismo combinato alla frenologia. Come la nobiltà in rovina trova una consolazione nella nobiltà del suo sangue, così la piccola borghesia impoverita si inebria delle fiabe sulla particolare superiorità della sua razza. È significativo che i capi del nazionalsocialismo non siano di origine germanica, ma provengano dall’Austria, come Hitler, dalle province baltiche del vecchio impero degli zar, come Rosenberg, dai paesi colonizzati, come Hess3, il sostituto di Hitler alla direzione del partito. Ci è voluto il clamore barbarico dei nazionalismi alla periferia della civiltà per imporre ai “capi” le idee che poi hanno trovato un’eco nel cuore delle classi più barbare della Germania.
La personalità e la classe – il liberalismo e il marxismo – sono il male. La nazione è il bene. Ma alla soglia della proprietà questa filosofia torna indietro. Solo nella proprietà personale risiede la salvezza. La idea di proprietà nazionale è frutto del bolscevismo. Divinizzando la nazione, il piccolo borghese non vuole renderle nulla. Al contrario si aspetta che la nazione lo fornisca di proprietà e lo protegga contro l’operaio e contro l’usciere. Sfortunatamente il III Reich non darà niente ai piccolo‑borghesi, se non nuove tasse. Sul piano dell’economia contemporanea, internazionale per i suoi legami, impersonale per i suoi metodi, il principio della razza sembra uscire da un cimitero medioevale. La purezza della razza che, nel regno dello spirito, è certificata dal passaporto, deve essere confermata dall’efficienza, soprattutto sul piano della economia. Nelle condizioni contemporanee ciò significa: capacità di concorrenza. Per la porta posteriore il razzismo ritorna al liberalismo economico, liberato dalle libertà proletarie.
Praticamente il nazionalismo nell’economia si limita ad esplosioni di antisemitismo, impotenti malgrado la loro brutalità. Del sistema economico contemporaneo, i nazisti mettono da parte il capitale bancario e usurario, come se si trattasse del diavolo. Ed è proprio in questa sfera che la borghesia ebraica occupa un grande posto. Continuando ad inchinarsi dinanzi al capitale nel suo complesso, i piccolo‑borghesi dichiarano guerra allo spirito maligno di accumulazione concepito sotto forma di un ebreo polacco dalla lunga veste, spessissimo senza un soldo in tasca. Il pogrom diviene la prova più alta della superiorità della razza.
Il programma con cui il nazionalsocialismo è arrivato al potere ricorda molto – ahimè – le grandi botteghe ebree di una provincia sperduta. Cosa non ci si può trovare? – e a un prezzo modesto e di una qualità ancora più modesta: il ricordo dei tempi felici della libera concorrenza e la vaga evocazione della stabilità di una società di caste; le speranze nella rinascita dell’impero coloniale e i sogni di un’economia chiusa; le chiacchiere su un ritorno dal diritto romano al vecchio diritto germanico e i passi per ottenere una moratoria dagli americani; l’ostilità invidiosa verso una diseguaglianza che acquista la forma di una villa o di un’automobile e la paura animalesca dell’uguaglianza che assume la forma di un operaio in berretto e senza colletto; la rabbia del nazionalismo e la paura di fronte al creditore mondiale… tutti i rifiuti del pensiero politico internazionale sono serviti a riempire il tesoro intellettuale del nuovo messianismo germanico. Il fascismo ha elevato alla politica i bassifondi della società. Non solo nelle case dei contadini, ma anche nei grattacieli delle città, accanto al secolo XX, vivono tutt’oggi il X e il XIII. Centinaia di milioni di persone adoperano la corrente elettrica continuando a credere alla forza magica dei gesti e degli scongiuri. Il papa di Roma diffonde per radio il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino. Le stelle del cinema vanno dagli indovini. Gli aviatori, che dirigono meccanismi miracolosi creati dal genio umano, portano degli amuleti sulle loro maglie. Quali riserve inesauribili di tenebre, di ignoranza e di barbarie! La disperazione le ha risollevate, il fascismo ha dato loro una bandiera. Tutto quello che nello sviluppo normale della società sarebbe respinto dall’organismo nazionale sotto forma di escrementi della cultura, ora rigurgita fuori dalla bocca: la civiltà capitalista vomita una barbarie non digerita, questa è la fisiologia del nazionalsocialismo.
Il fascismo tedesco, come il fascismo italiano, è giunto al potere appoggiandosi sulla piccola borghesia, che ha trasformato in ariete contro le organizzazioni della classe operaia e contro le organizzazioni della piccola democrazia. Ma il fascismo al potere è tutt’altro che un governo della piccola borghesia. Al contrario, è la dittatura più spietata del capitale monopolistico. Mussolini ha ragione: le classi medie sono incapaci di una politica indipendente. Nei periodi di grande crisi, sono chiamate a spingere all’assurdo la politica dell’una o dell’altra delle due classi fondamentali. Il fascismo è riuscito a porle al servizio del capitale. Parole d’ordine come la nazionalizzazione dei trust e la liquidazione degli illeciti profitti sono state improvvisamente gettate a mare sin dal momento dell’arrivo al potere. E il particolarismo dei “territori” tedeschi, determinato dalle particolarità della piccola borghesia, ha ceduto il posto al centralismo capitalistico e poliziesco. Ogni successo della politica estera e della politica interna nazionalsocialista significa inevitabilmente schiacciamento del piccolo capitale da parte del grande.
Il programma delle illusioni piccolo‑borghesi non è annullato. Semplicemente si distacca dalla realtà e si dissolve in atti rituali. L’unificazione di tutte le classi si riduce al semisimbolismo del servizio del lavoro obbligatorio e alla confisca “in favore del popolo” del 1° maggio. Il mantenimento dell’alfabeto gotico contro l’alfabeto latino è una simbolica rivincita sulla evoluzione del mercato mondiale. La dipendenza verso i banchieri internazionali, compresi quelli ebrei, non si attenua minimamente. In compenso, è proibito macellare gli animali con il rito del Talmud. Se l’inferno è pavimentato di buone intenzioni, le vie del III Reich sono lastricate di simboli.
Riducendo le illusioni piccolo‑borghesi a semplici mascherate burocratiche, il nazionalsocialismo si pone al di sopra della nazione come la peggior forma di imperialismo. La speranza che il governo di Hitler possa cadere vittima, oggi o domani, della sua intrinseca inconsistenza, è assolutamente vana. Un programma era necessario ai nazisti per arrivare al potere, ma il potere non serve affatto a Hitler per realizzare questo programma. L’obiettivo gli è fissato dal capitale monopolistico. La concentrazione forzata di tutte le risorse e di tutti i mezzi del popolo secondo gli interessi dell’imperialismo – che è la reale missione storica della dittatura fascista – significa preparazione alla guerra. Questo compito a sua volta non tollera alcuna resistenza e porta ad un’ulteriore automatica concentrazione del potere. Non si può né riformare né costringere alle dimissioni il fascismo. Si può solo rovesciarlo. L’orbita politica del nazismo condurrà a questa alternativa: guerra o rivoluzione. Il primo anniversario della dittatura nazista si avvicina. Tutte le tendenze del regime si sono potute rivelare con chiarezza e precisione. La “rivoluzione socialista”, che le masse piccolo‑borghesi immaginavano come l’indispensabile completamento della “rivoluzione nazionale”, è ufficialmente condannata e liquidata. La fraternizzazione delle classi ha raggiunto il punto culminante nella rinuncia, in un giorno stabilito dal governo, da parte dei possidenti a vantaggio dei non possidenti, dei loro antipasti e dei loro dessert. La lotta contro la disoccupazione ha portato a dividere in due la mezza porzione di carestia. Il resto è compito di una statistica ben disciplinata. L’autarchia “pianificata” si riduce semplicemente a un nuovo stadio della disgregazione economica.
Più il regime poliziesco dei nazisti è impotente sul piano della economia e più è costretto a rivolgere i suoi sforzi in direzione della politica estera. Ciò corrisponde assolutamente alla dinamica interna del capitale tedesco, fondamentalmente aggressivo. Il repentino mutamento dei capi nazisti, che fanno ora dichiarazioni pacifiste, può sorprendere solo degli sciocchi inguaribili. Quale altro mezzo resta a disposizione di Hitler per far ricadere sui nemici esterni la responsabilità delle calamità interne e per accumulare sotto la pressa della dittatura la forza esplosiva dell’imperialismo?
Questa parte del programma, già indicata apertamente prima dell’avvento nazista al potere, viene applicata ora con una ferrea logica, dinanzi agli occhi del mondo intero. Il periodo di tempo che ci separa da una nuova catastrofe europea è determinato dal tempo necessario al riarmo della Germania. Non si tratta di mesi; ma non si tratta neppure di decine d’anni. Bastano alcuni anni perché l’Europa si trovi di nuovo precipitata nella guerra, se Hitler non è arrestato a tempo dalle forze interne della Germania stessa.
10 giugno 1933
Note
1. Alfonso XIII aveva abdicato dal trono di Spagna nell’aprile del 1931.
2. Il conte de Gobineau (1816‑82), diplomatico francese e autore di un libro intitolato Essai sur l’inégalité des races humaines, è considerato uno dei precursori del moderno razzismo.
3. Alfred Rosenberg, dirigente e ideologo del nazionalsocialismo, è stato impiccato dopo la condanna al processo di Norimberga. Rudolf Hess, uno dei maggiori dirigenti nazisti e indicato da Hitler come uno dei successori, si e rifugiato in Gran Bretagna all’inizio della Seconda guerra mondiale.
Source: Che cos’è il nazionalsocialismo?