La crisi si sta sviluppando senza sosta, e anzi con velocità crescente.
In novembre negli Stati Uniti sono stati tagliati posti di lavoro al
ritmo più rapido negli ultimi 34 anni. Il prodotto interno lordo
mondiale è in caduta libera.
La recessione è stata preceduta da una crisi finanziaria (la cosiddetta “stretta” creditizia). In ogni caso, non si è trattato che di un preludio alla crisi vera e propria. Come sempre, gli economisti borghesi traggono la conclusione che la causa della crisi è la mancanza di credito. In realtà, è la mancanza di credito a essere causata dalla crisi.
Durante il boom, tutti sono pronti a fare e concedere prestiti, sicuri di ottenere buoni profitti. Come sempre c’è stato un ampio elemento di speculazione in tutto questo. La vertiginosa crescita dei prezzi sul mercato finanziario non aveva alcun rapporto con la situazione reale. Bisogna tenere a mente che, in ultima analisi, i profitti dei capitalisti possono derivare soltanto da lavoro non pagato della classe operaia. Finché viene estratto il surplus, i capitalisti, i grandi proprietari terrieri, i banchieri e gli speculatori di borsa, possono tutti realizzare profitto. Si illudono che questo allegro carnevale possa durare per sempre. Ma questo processo prima o poi si scontra con le contraddizioni intrinseche del sistema capitalista.
Ora è iniziata la seconda fase – la crisi dell’economia reale. Milioni di lavoratori fanno i conti con riduzioni di orario, eliminazione degli straordinari o licenziamenti e chiusure di aziende. I padroni invocano tagli salariali, sotto la minaccia della chiusura delle loro imprese. Questo significa una riduzione generale del tenore di vita, che a sua volta comporta un nuovo crollo della domanda, con ulteriori chiusure, disoccupazione e nuovi tagli. Il crollo delle attività significa un crollo delle entrate fiscali dello Stato, che a sua volta non può che significare nuovi tagli nella spesa sociale.
Il numero dei lavoratori dipendenti negli USA è sceso in novembre di 533.000 unità – la maggiore riduzione mensile dal dicembre 1974. La disoccupazione è cresciuta al 6,7%. In ogni caso, questi dati non rendono a sufficienza la gravità della situazione. Una definizione più ampia, che includa le persone che hanno rinunciato a cercare un lavoro, porterebbe la percentuale di disoccupazione al 12,5%. Attualmente c’è un susseguirsi di aziende che chiudono. La Bank of America sta per licenziare 35.000 lavoratori dopo aver assorbito Merill Lynch. Dow Chemicals sta chiudendo 20 stabilimenti con la perdita di 5.000 lavoratori tra USA ed Europa. Altri 2.300 posti di lavoro verranno tagliati da 3M. Anheuser-Busch InBey sta tagliando il 6% della propria forza lavoro negli USA (di cui tre quarti a St. Louis).
Nessuno ora ripete più l’assurdità che la crisi resterà confinata negli USA. Si tratta di un fenomeno internazionale. La grande compagnia giapponese Sony è in procinto di mandare a casa altri 16.000 lavoratori, tagliare gli investimenti ed esternalizzare parte della propria produzione. Ha dimezzato le previsioni annuali di profitto in conseguenza del crollo della domanda per i televisori LCD. La compagnia anglo-australiana di estrazione mineraria Rio Tinto sta riducendo alcune delle proprie immobilizzazioni e vendendo parte del proprio patrimonio per ripianare debiti per 10 miliardi di dollari. Taglierà 14.000 posti di lavoro entro la fine del 2009. Woolworth, una delle principali catene di grandi magazzini in Gran Bretagna, sta chiudendo dopo un secolo di vita, con la perdita di 30.000 posti di lavoro. Questa lista potrebbe andare avanti all’infinito, e continua ad allungarsi.
Il crescente allarme della classe dominante si riflette nel susseguirsi di misure d’emergenza adottate da governi e banche centrali, che non sono più rivolti a prevenire una recessione, ma soltanto ad attenuarne gli effetti. Ma nonostante tutte queste misure, la crisi si approfondisce e si allarga di giorno in giorno. L’economia mondiale è entrata in una spirale negativa, e nessuno sa dove stia il fondo né quando verrà raggiunto.
In passato gli economisti borghesi negavano la possibilità di una recessione. Adesso la questione per loro è soltanto se sarà una recessione profonda o una depressione. Per i milioni di persone colpite da chiusure di aziende, bancarotte, licenziamenti e sfratti, però, la differenza tra le due è puramente semantica. I borghesi e i loro stolti economisti immaginano che tutte le crisi siano causate da mancanza di “fiducia”, e che perciò basterà qualche discorsetto incoraggiante (accompagnato da massicce elargizioni di denaro pubblico) a risolvere il problema. Non comprendono che la fiducia non cade dal cielo ma riflette le condizioni concrete. Contro questa spiegazione superficiale e idealista (e che non spiega nulla), noi replichiamo: non è la mancanza di fiducia a causare la crisi, ma è la crisi a provocare una mancanza di fiducia.
Bisogna sempre tenere a mente che nessun profitto può essere realizzato senza che i capitalisti vendano i loro prodotti. La capacità di trovare un mercato trova un limite nella limitazione dei consumi della società. Prima o poi si raggiunge il punto in cui i mercati sono saturi e non si possono trovare acquirenti. Durante le crisi del 1990-91 e del 2001 la domanda non scese molto. Nel primo caso il rapido sviluppo dell’Asia (Cina) fornì un’ancora di salvataggio che evitò che la recessione si trasformasse in un vero e proprio crollo. Dopo di questo, l’enorme crescita del credito e la bolla speculativa del mercato edilizio tennero in piedi l’intera economia, ma su basi completamente inadeguate.
Questa situazione non poteva durare. In effetti, i capitalisti hanno evitato una crisi profonda per due decenni, ma solo al costo di creare le condizioni per una recessione ancora più seria in futuro. Questo spiega l’allarmismo con cui i borghesi osservano la crisi attuale.
Durante il boom, quando si realizzano grandi profitti, tutti comprano e vendono, chiedono e concedono prestiti, contraggono allegramente debiti ben oltre i propri guadagni. Se anche qualcuno si accorge che tutto questo è basato su speculazione e truffe, nessuno ci fa davvero caso. Non siamo forse ricchi? Non stiamo forse guadagnando tutti quanti? Carpe diem! Ma quando il boom raggiunge il proprio limite – cosa che deve prima o poi accadere – questo “entusiasmo irrazionale” si trasforma nel suo opposto. La fiducia svanisce insieme al miraggio di un arricchimento senza fine. Al posto del vecchio spensierato ottimismo, troviamo panico e disperazione. Non l’avidità, ma un’emozione altrettanto primordiale, la paura, diviene il sentimento dominante del mercato.
Contraddicendo tutte le loro analisi precedenti, gli economisti borghesi ora dicono che questa recessione sarà la più lunga e la più profonda dalla Seconda Guerra Mondiale. I capitalisti stanno pagando il prezzo per l’ “entusiasmo irrazionale” che hanno mostrato nel periodo precedente. Terrorizzati dalle conseguenze sociali e politiche, stanno ricorrendo alle soluzioni più disperate, che serviranno soltanto ad aggravare i problemi nel lungo periodo. Ad ogni occasione i portavoce della borghesia annunciano che “il peggio ormai è passato”. Simili dichiarazioni, che giunsero a intervalli regolari anche dopo il crollo di Wall Street del 1929, sono sempre seguite da ulteriori crolli dei mercati azionari e da ulteriori tagli della produzione.
La borghesia si è scavata da sola una fossa profonda, da cui non sarà facile tirarsi fuori. Le banche stanno affondando sotto il peso di debiti “cattivi”. Nessuno sa quanti siano e perciò nessuno sa quali banche siano solvibili (ammesso che ve ne siano). Questo è il motivo per cui gli economisti dicono che questa recessione non è “normale”. Alcuni economisti ora guardano con nostalgia ai “bei vecchi tempi” del sistema monetario “oro-convertibile”, ma un ritorno a esso sarebbe impossibile oggi. Porterebbe a un completo collasso e a un crollo dell’economia ancora peggiori della Grande Depressione degli anni ’30.
Prima della Seconda Guerra Mondiale l’economia mondiale era basata sul sistema monetario oro-convertibile, logico come mezzo per regolare i mercati valutari. I governi dovevano possedere una certa quantità di lingotti d’oro come copertura per la valuta nazionale. In ultima istanza, i creditori potevano richiedere il pagamento dei debiti in oro, che, come ogni altro prodotto, ha un valore oggettivo.
L’abolizione della convertibilità in oro fu resa possibile soltanto per il motivo che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli USA detenevano due terzi dell’oro mondiale all’interno di Fort Knox, e il loro sistema produttivo era intatto. Potevano dettare le loro condizioni al resto del mondo. Tutti volevano dollari perché all’epoca il dollaro era “buono come l’oro”. Il dollaro divenne la valuta internazionale (con la sterlina come compagna di serie B). Questa circostanza giocò un ruolo nello sviluppo del commercio mondiale dopo il 1945 – la base reale dello sviluppo economico del capitalismo mondiale all’epoca.
Ora, ad ogni modo, tutto ciò è cambiato. Gli USA si sono trasformati da principale creditore a principale debitore mondiale. Il dollaro rimane la valuta internazionale, ma nessuno può sapere con certezza quanto valga davvero. Quantità inimmaginabili di capitale fittizio sono state pompate nell’economia mondiale negli ultimi due o tre decenni. Il mercato mondiale dei soli derivati assomma a più di 500 mila miliardi di dollari, perlopiù derivanti dalla speculazione e di natura fittizia. Il mercato dei derivati ammonta a 36 volte il valore del totale del PIL statunitense (il PIL degli USA era pari a 13,8 mila miliardi nel 2007), o all’incirca 10 volte il valore del prodotto dell’intero pianeta.
L’espansione del credito senza precedenti dell’ultimo periodo è servita a mantenere alti i livelli della domanda negli USA e in altri Paesi, ma ciò ora ha raggiunto il suo limite. L’intero processo è ribaltato nel suo opposto. Ora nessuno vuole prestare denaro e pochi vogliono prenderne a prestito. La società è ora in preda a un sentimento di parsimonia e avarizia. Le masse non hanno denaro da spendere – soltanto debiti da ripianare. Coloro che in precedenza prestavano allegramente denaro adesso chiedono indietro i soldi. Molti di quelli che contrassero mutui per comprare una casa non sono più in grado di pagare e si ritrovano sfrattati. Dal momento che il prezzo delle loro case è diminuito, sono alle prese con debiti enormi, che a differenza dei prezzi delle case non diminuiscono.
I banchieri, che ieri non vedevano l’ora di prestare denaro a chiunque, sono adesso ansiosi di accumularlo e non spartirne neppure un centesimo. Questo atteggiamento avaro e di sfiducia generale non è soltanto nei confronti dei piccoli proprietari di case e titolari di piccole attività, ma anche alle altre banche e alle grandi imprese. Non intendono prestare denaro ad altre banche perché non sono certi che il denaro tornerà mai indietro. Né sono pronti ad anticipare denaro alle imprese perché possano acquistare materie prime e strumenti. Sono invece piuttosto disposti a staccare la spina e costringere le imprese a chiudere come fossero scatole di fiammiferi, gettando migliaia di persone nella disoccupazione senza nemmeno battere ciglio.
Dal momento che il credito è la linfa vitale del sistema capitalista, interromperne il flusso significa che non solo gli affari “cattivi” finiranno in bancarotta, ma anche quelli “buoni”. L’estinguersi del credito minaccia l’intero processo produttivo della società con un lento strangolamento. Gli effetti si possono vedere nell’improvvisa successione di bancarotte e chiusure di aziende, che colpiscono non solo le piccole imprese ma anche le società più grosse, come Ford, General Motors, Sony, Nissan e molte altre. La ragione principale è il crollo della domanda, aggravato dal prosciugarsi del credito. Improvvisamente c’è troppo acciaio, troppo cemento, troppe automobili, troppi uffici vuoti, troppo petrolio… In altre parole, ciò a cui stiamo assistendo è una classica crisi di sovrapproduzione.
Le grandi imprese automobilistiche americane hanno cercato di accrescere la propria fetta di mercato con una feroce politica di sconti. Alla fine, il risultato è stato la bancarotta. Ora sono costrette a presentarsi col cappello in mano davanti al governo degli Stati Uniti, che ha inizialmente accordato loro una grossa parte del denaro dei contribuenti per tenerle a galla. Dopo i finanziamenti di Stato alle banche, quest’ultima è stata un’azione senza precedenti, specialmente se consideriamo che i Repubblicani dovrebbero essere il “Partito dell’Economia di Libero Mercato” per definizione. Si è trattata di una misura dettata dalla disperazione.
Questa proposta di una generosa donazione alle grosse compagnie automobilistiche è stata dettata dalla paura delle conseguenze sociali e politiche della bancarotta di aziende come Chrysler e GM, che comporterebbe la perdita di milioni di posti di lavoro. Si è trattato inoltre di una misura protezionistica, diretta contro i produttori stranieri di automobili. Se verrà approvata, porterà sicuramente all’approvazione di misure analoghe in Europa e in Giappone. In ogni caso, il governo ha insistito perché, in cambio del pacchetto di finanziamento, vengano tagliati i salari: i sindacati si sono opposti. I Repubblicani hanno votato contro la proposta, che è stata sconfitta al Senato. Si tratta della ripetizione del precedente conflitto tra Casa Bianca e Congresso sui finanziamenti alle banche. Questa vicenda mette in evidenza le profonde contraddizioni a tutti i livelli della società statunitense.
Stiamo entrando in un periodo di crescente protezionismo e di tensioni tra le principali nazioni capitaliste. La tendenza al protezionismo sarà ancora più accentuata con Obama, che sarà sotto pressione perché salvi “posti di lavoro americani”. Non dimentichiamo che i Democratici sono sempre stati propensi al protezionismo. Questo provocherà ritorsioni da parte dei concorrenti degli USA. La Volkswagen sta già invocando aiuti statali, altre aziende seguiranno.
La crisi sta mostrando anche le crepe all’interno dell’Unione Europea. Gran Bretagna e Francia mettono pressione sulla Germania perché “reflazioni” la sua economia (cioè aumenti il proprio deficit per creare maggiore domanda per i prodotti britannici e francesi). Ma la Germania resiste: non vedono il motivo per cui la Germania dovrebbe pagare il prezzo per i problemi altrui. Ma la partecipazione della Germania è assolutamente necessaria perché i piani di ripresa dell’Europa abbiano successo. Devono tutti alzare il costo del denaro contemporaneamente, altrimenti la Germania trarrebbe giovamento “ingiustamente” dagli sforzi degli altri Paesi.
Ma queste proposte non sono state accolte bene a Berlino. Il Ministro delle Finanze tedesco, Peer Steinbrueck, ha deriso le aspettative generali per quello che ha chiamato “il grande piano della riscossa”, affermando che un simile piano “non esiste” e che il come affrontare questa crisi senza precedenti è un puzzle che verrà risolto soltanto per tentativi ed errori. Le autorità europee che credono che la risposta risieda in generosi programmi di spesa stanno dicendo, in realtà, “lasciamo che i Tedeschi paghino perché possono farlo”, ha aggiunto.
In realtà, ciò che ha detto Herr Steinbrueck è corretto. Ha osservato che anche se alcune politiche possono temporaneamente e lievemente migliorare la situazione, la recessione è inevitabile, qualsiasi cosa ogni governo faccia. Le politiche di Gordon Brown e Bush non sono che un tentativo di gonfiare di nuovo la bolla che è alla radice della situazione attuale. Hanno gettato a fondo perduto miliardi alle banche nella speranza che avrebbero ricominciato a prestare denaro. Ma non hanno avuto successo. I banchieri non sono disposti a prestare denaro in questa fase economica, e nessun taglio degli interessi né sussidio di Stato li convincerà. In ogni caso, il margine per questi tagli è minimo. Nel caso degli USA è praticamente zero. A una a una, le borghesie degli Stati più ricchi del mondo stanno utilizzando tutte le risorse a loro disposizione nel vano tentativo di arrestare una recessione che non si può fermare.
In effetti i borghesi sono in trappola. Qualsiasi cosa facciano ora sarà sbagliata. Se non intervengono, immettendo denaro nelle banche e nelle aziende in crisi ci sarà un crollo profondo che comporterà disoccupazione di massa come negli anni ’30. Ma se ricorrono a misure keynesiane di debito pubblico, contrarranno debiti enormi che mineranno ogni futura ripresa e agiranno come una tremenda idrovora sugli investimenti produttivi, creando le condizioni per un lungo periodo di tagli e austerità.
L’inadeguatezza delle politiche attuate nel periodo precedente si rivela ora come un colossale “dopo sbronza” da debiti. Questo significa che la recessione sarà più profonda e più lunga di quanto sarebbe stata altrimenti. La borghesia deve ora pagare il prezzo per i “successi” degli ultimi venti anni. Interi paesi ora si trovano di fronte all’insolvenza. L’Islanda è già in bancarotta. I debiti delle banche rappresentano ora il 700% del PIL della Svizzera, fin qui considerata come un porto sicuro per il capitale. La percentuale in Gran Bretagna è del 430%. Quella degli USA è appena sotto il 100% - dopo l’enorme immissione di capitali nel settore bancario.
L’intensificarsi della recessione significherà un inasprimento delle tensioni tra Europa e Stati Uniti, tra USA, Cina e Giappone e tra Russia e USA. In passato simili tensioni avrebbero condotto a una guerra mondiale. Fu la Seconda guerra mondiale a risolvere la crisi economica degli anni ’30, con massicce spese militari e la completa distruzione dei mezzi di produzione durante la guerra. Oggi però, la situazione è del tutto diversa. Il crollo dell’URSS e la potenza colossale dell’imperialismo statunitense significano che una guerra mondiale è fuori discussione. Con una spesa annuale in armamenti intorno ai 600 miliardi di dollari, nessuna potenza al mondo può reggere il confronto con gli USA. Ma ci saranno costantemente “piccole” guerre, come quelle in Iraq, Afghanistan, Somalia, Congo eccetera. Il conflitto tra Russia e USA può provocare guerre come quella in Georgia.
Gli scontri diplomatici e le tensioni aggiungeranno un elemento ulteriore all’instabilità generale. Il diffondersi incontrollabile del terrorismo è un sintomo della crisi che ne è alla base. Tutti questi fenomeni, che i pacifisti sentimentali compiangono, non sono che un’espressione della causa che sta alla loro radice, ossia la contraddizione tra l’enorme potenziale delle forze produttive e le anguste limitazioni della proprietà privata e dello stato nazionale. Le maggiori potenze (specialmente gli USA) cercheranno di usare i muscoli per intimidire i propri rivali e impadronirsi di mercati e fonti di materie prime, ma i capitalisti non possono più trovare una via di uscita dalla crisi prendendo la strada della guerra come fecero nel 1914 e nel 1939. Perciò, tutte le contraddizioni si esprimeranno all’interno, con la crescita e l’intensificazione della lotta di classe.
Gli occhi dei borghesi sono ora rivolti sulla Cina, da cui sperano possa giungere una salvezza. Ma la Cina è ormai pienamente integrata nel mercato mondiale capitalista e deve subire le conseguenze della crisi proprio come tutti gli altri. Per mantenere la disoccupazione ai suoi livelli attuali è necessario un tasso di crescita almeno dell’8% annuo. Se il livello di crescita scende al di sotto di questo livello, sorge la prospettiva di seri conflitti sociali. L’ultima stima del FMI (Fondo Monetario Internazionale) per la crescita della Cina è soltanto del 5%. Dominique Strauss-Kahn, il direttore generale del FMI, ha affermato: “Abbiamo iniziato con la Cina in crescita dell’11%, poi dell’8%, poi del 7%, quindi la Cina crescerà probabilmente del 5 o 6%.” È ancora molto in confronto con i tassi di crescita degli USA o dell’Europa. Ma è un calo netto in confronto con i livelli di crescita intorno al 10% cui era abituata la Cina nell’ultimo periodo. E non è nemmeno certo che questa previsione verrà raggiunta.
La Cina ha un vasto mercato interno, probabilmente intorno ai 300 milioni di persone. Ma nemmeno questo è sufficiente ad assorbire l’enorme capacità produttiva che l’industria cinese ha sviluppato negli ultimi due o tre decenni. La diminuita domanda del mercato statunitense sta colpendo le esportazioni cinesi. La contrazione della produzione industriale cinese si è approfondita in novembre con la produzione dell’acciaio in calo del 12,4% rispetto a un anno fa, le consegne delle acciaierie in calo dell’11,3%, la produzione di energia elettrica in calo del 9,6% e la produzione del settore petrolchimico pure in diminuzione. Rispetto al novembre dell’anno precedente le esportazioni sono calate nettamente del 2,2%, mentre gli analisti si attendevano una crescita del 15%. Per comprendere il cambiamento di fase, occorre ricordare che tra il 2000 e il 2006 le esportazioni cinesi sono cresciute a un tasso annuale del 26%. Nello stesso mese le importazioni sono diminuite del 18%. È la prima volta del 2001 che le importazioni sono calate.
Stanno emergendo segnali di sovrapproduzione e sovrainvestimento in Cina, il cui mercato interno, benché di considerevoli dimensioni, non è grande a sufficienza per assorbire il colossale potenziale produttivo sviluppato negli ultimi due o tre decenni, che ora sta raggiungendo i suoi limiti. Il primo campanello d’allarme è stata la brusca caduta del mercato azionario, che ha perso circa il 60% del suo valore. Ma la crisi non è confinata al mondo borsistico. I prezzi delle case sono in discesa, l’edilizia sta rallentando come l’industria, più velocemente del PIL. Le vendite di automobili nel mese di novembre in Cina sono diminuite di oltre il 10% rispetto all’anno precedente. La produzione di energia, generalmente considerata un affidabile indicatore della crescita economica, è calata del 7%.
Queste cifre hanno modificato le prospettive degli economisti occidentali sulla Cina. Al precedente ottimismo si sta rapidamente sostituendo il pessimismo. The Economist (13 dicembre 2008) riportava: “Gli ottimisti speravano perfino che questi enormi mercati emergenti (India e Cina) avrebbero potuto rappresentare il motore che avrebbe tirato il mondo fuori dalla recessione. Ora temono l’opposto: che la crisi mondiale trascinerà con sé Cina e India, portando disoccupazione di massa in due Paesi che, nonostante i successi recenti, ospitano circa due quinti dei bambini denutriti del pianeta.
È vero che la Cina possiede enormi riserve, che può utilizzare per alimentare progetti di lavori pubblici per sviluppare le infrastrutture. In novembre il governo ha annunciato un pacchetto di incentivi fiscali per quattromila miliardi di yuan (quasi 600 miliardi di dollari). Ma secondo certe stime, questo dovrebbe portare a un aumento del PIL di appena oltre l’1%. Questo è insufficiente per ottenere il tipo di risultati di cui la Cina ha bisogno. Pechino ha soltanto un’altra opzione: cercare di risolvere la crisi esportando di più. Questo porta a uno scontro diretto con Europa e Stati Uniti, che stanno facendo pressioni perché la Cina rivaluti la propria moneta per poter aumentare le importazioni. Paulson ha visitato Pechino per chiedere alla Cina di rivalutare lo yuan, ma è più probabile che la Pechino attui una svalutazione, che approfondirebbe le contraddizioni tra Cina e USA.
I leader temono che il peggioramento della situazione economica produrrà ciò che uno di loro ha definito “una reazione di agitazione sociale di massa”. The Economist (13 dicembre 2008) riporta: “Ogni settimana porta notizie fresche di industrie chiuse, specialmente nella cerchia industriale intorno al Delta del Fiume delle Perle nella Cina meridionale. I lavoratori senza retribuzione hanno dato vita a violente proteste.” Lo stesso giornale aggiunge: “In effetti, manifestazioni e proteste, sempre comuni in Cina, stanno diffondendosi e sempre più i lavoratori dell’industria licenziati scendono in piazza insieme ai contadini espropriati, agli attivisti ambientalisti e alle vittime delle violenze poliziesche.”
Il rallentamento della Cina sta colpendo il Giappone, per cui il mercato cinese è divenuto sempre più importante. Nei tre mesi fino a settembre l’economia giapponese si è attestata a un tasso dell’1.8% su proiezione annuale. Altre economie emergenti sono ancora meno in grado della Cina di garantire gli impulsi necessari all’economia mondiale. Tutti verranno trascinati nella recessione nel prossimo periodo. Questo significa convulsioni sociali e politiche su una scala enorme. Il caos verificatosi in Thailandia ne è un’ulteriore indicazione.
Dopo un periodo di cinque anni in cui l’India è cresciuta al ritmo dell’8%, le esportazioni sono scese in ottobre del 12% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Centinaia di piccole industrie tessili sono fallite. Ma anche le grosse aziende sono in crisi. L’industria automobilistica ha interrotto la produzione. Le vendite della Ambassador, l’auto più diffusa in India, sono crollate. Il Pakistan è già sull’orlo della bancarotta. La banca centrale ha rivisto le proiezioni di crescita al 7,5% e si tratta di una previsione ancora troppo ottimistica. La crescita reale potrebbe calare al 5,5% - la più bassa dal 2002.
Con un deficit di bilancio intorno all’8% del PIL, l’India, a differenza della Cina, ha ben poco spazio di manovra. Se la Cina ha bisogno di un tasso di crescita dell’8% per assorbire i sette milioni di persone che ogni anno entrano nel mondo del lavoro, come può l’India assorbire una forza lavoro che si espande a un ritmo di circa 14 milioni di persone all’anno? La sua crescita maggiore è stata in settori come la tecnologia informatica, che non impiega un gran numero di lavoratori. Una rapida crescita della disoccupazione giovanile produrrà condizioni esplosive nella società. “E come in Cina proteste di piazza e perfino insurrezioni sono sempre più diffuse.” (The Economist)
La caduta della domanda mondiale si è espressa nel generale calo dei prezzi dei beni. Il petrolio è sceso da un picco di 147 dollari fino a circa 40 dollari in pochi mesi. Questo colpirà le economie produttrici di petrolio in Medio Oriente, Iran, Indonesia, Nigeria, Messico, Russia e Venezuela. La Russia ha il terzo maggiore avanzo di bilancio nel mondo, che è tuttavia diminuito di 144 miliardi di dollari da agosto. C’è una corsa a dismettere i fondi in rubli, che sottolinea le paure dei borghesi per il futuro. La cricca dominante sta cercando di distrarre l’attenzione delle masse dalla crisi con avventure all’estero (come in Georgia). Ma la crisi che si sta sviluppando deve prima o poi esprimersi in una crisi del regime e nella crescita di un’opposizione, in scioperi e proteste.
L’economia ucraina è in crisi e il Paese ha dovuto chiedere un prestito di 16 miliardi di dollari dal FMI. La crisi economica sta approfondendo la crisi politica, che ha carattere endemico. Lo stallo del regime esprime il completo fallimento del capitalismo nel risolvere i problemi dell’Ucraina o di qualunque altra delle ex repubbliche sovietiche. Il governo filo-americano ha evitato le elezioni, ma in realtà è appeso a un filo. Molte delle altre ex repubbliche sovietiche sono in condizioni ancora peggiori.
Il brusco crollo del prezzo del petrolio intensificherà il fermento pre-rivoluzionario in Iran, dove il regime di Ahmadinejad è appeso a un filo. C’è già un diffuso malcontento e rabbia tra i giovani, ma anche tra i lavoratori e il ceto medio. C’è stata un’ondata di scioperi. Il fatto che gli americani abbiano deciso di ritirarsi dall’Iraq significa che saranno costretti ad aprire negoziati con Iran e Siria per coprire la loro ritirata. Questo priva Ahmadinejad della sua carta principale – lo sciovinismo anti-americano e la retorica guerrafondaia. Senza il nemico esterno, le contraddizioni all’interno dell’Iran arriveranno a un punto decisivo, con conseguenze rivoluzionarie.
Nei paesi più poveri dell’Africa sono cominciati ad apparire elementi di barbarie e in alcuni casi minacciano di travolgere la società e riportarla indietro a uno stato selvaggio. Nel Congo 5 milioni di persone sono morte in una sanguinosa guerra civile. In Zimbabwe la popolazione è costretta ad affrontare gli orrori della fame e del colera. In Sierra Leone oltre il 70% della popolazione vive con 70 centesimi al giorno e due terzi delle donne sono analfabete. All’incubo della fame e della povertà si aggiungono le piaghe della malaria e dell’AIDS. Ovunque le forze produttive sono fermate o in declino, creando ulteriore disoccupazione, povertà e disperazione.
Non è difficile ritrarre l’intero pianeta come un incubo o un manicomio. Questi sono i sintomi che si associano alla decadenza senile di un sistema che è sopravvissuto ben oltre la sua utilità storica, come l’impero romano nel periodo del suo declino. Ma c’è anche il rovescio della medaglia. C’è fermento nella società, e i primi segni di una rivolta, a partire naturalmente dai giovani, che da un lato sono le prime vittime della crisi, e dall’altro sono un barometro piuttosto preciso del clima di malcontento che sta silenziosamente crescendo nel profondo della società.
È vero che la repentinità della crisi ha scioccato non solo la borghesia ma anche i lavoratori. Ci sarà una certa tendenza ad aggrapparsi ai propri posti di lavoro e perfino ad accettare tagli nell’immediato, specialmente dal momento che i dirigenti sindacali non offrono alternative. Ma presto sorgerà anche uno stato d’animo generale di rabbia e amarezza, che prima o poi troverà uno sbocco in superficie. È inevitabile che i primi a entrare in azione saranno i giovani: è sempre così. I giovani, a cominciare dagli studenti, sono sempre un barometro preciso degli stati d’animo che si sviluppano nella società. Possono anticipare grossi movimenti dei lavoratori, come nel 1901-03 in Russia e nel 1968 in Francia.
In Italia e in Germania ci sono state massicci movimenti di protesta dei giovani. In Spagna gli scioperi studenteschi di questo autunno sono stati organizzati e guidati dal Sindacato degli Studenti a guida marxista. Ci sono stati movimenti giovanili anche in Ungheria e prima ancora in Francia. Ma è in Grecia che il movimento ha acquistato un carattere esplosivo e semi-insurrezionale, combinandosi con uno sciopero generale dei lavoratori. È un serio avvertimento ai borghesi di quello che può accadere anche in altri paesi. Mostra la falsità della tesi che il risultato della crisi economica sarà inevitabilmente la paralisi della classe lavoratrice.
La borghesia vorrebbe ricorrere a misure repressive. Si è visto nelle recenti dichiarazioni di Cossiga in Italia, che hanno chiaramente un carattere bonapartista. Ma la Grecia mostra i limiti di una politica di questo tipo. È stato l’assassinio di un giovane studente delle scuole superiori che ha trascinato le masse in strada. Il governo di destra ha considerato l’ipotesi di proclamare lo stato di emergenza, ma Karamanlis non ha potuto usare la forza per imporre l’ordine nelle strade, perché questo avrebbe portato la Grecia sull’orlo di una guerra civile. Si è dovuto ritirare: il governo è rimasto paralizzato.
Quello che mostrano gli avvenimenti in Grecia è la debolezza della reazione e l’enorme forza della classe lavoratrice in questo momento. Se i dirigenti del movimento operaio greco avessero mantenuto una politica rivoluzionaria, avrebbero potuto prendere il potere. Ma senza una leadership adeguata il movimento sarà ridotto a inutile ribellione, che il governo alla fine riuscirà a riportare sotto controllo. Ciononostante, il movimento è stato un serio avvertimento ai capitalisti greci circa lo stato d’animo di rabbia e frustrazione che pervade la società. Il governo di destra è finito. Una nuova fase della lotta di classe si sta aprendo in Grecia, e domani lo stesso processo si verificherà in un paese dopo l’altro.
In America Latina la rivoluzione è già iniziata. Non è un caso, e l’abbiamo spiegato dieci anni fa, quando abbiamo deciso di orientare il lavoro della Tendenza Marxista Internazionale verso l’America Latina. In questo continente il capitalismo è stato spezzato nel suo anello più debole. La Rivoluzione Venezuelana ha raggiunto u punto critico, in cui la sua direzione futura deve prendere una strada o l’altra.
La crisi del capitalismo colpisce duramente l’America Latina, anche se si sta sviluppando in modo diseguale, con ripercussioni diverse su ciascun Paese. Il Brasile, il gigante economico della regione, nelle previsioni crescerà del 4% (stima probabilmente ottimistica), mentre il Messico, strettamente legato all’economia statunitense, dovrebbe crescere soltanto dello 0,4%. In ogni caso, in misura e in tempi differenti, tutti saranno coinvolti.
In ottobre, il FMI ha previsto un tasso di crescita del 3,5% per l’America Latina nel 2009. Due mesi dopo, la Banca Mondiale ha abbassato le stime al 2,1% e Morgan Stanley prevede una caduta dello 0,7% per le sette principali economie della regione. Negli ultimi due mesi ci sono state crisi di borsa e monetarie, e una contrazione del sistema creditizio. Questo ha fatto seguito a un calo delle esportazioni e a un brusco crollo dei prezzi dei beni. Il rallentamento della Cina colpisce la domanda per il petrolio venezuelano, i minerali peruviani, la soia argentina e il ferro non lavorato e il succo d’arancia brasiliani.
La crisi negli USA colpisce il continente in modo anche più diretto. Interi villaggi, città e perfino regioni o Paesi come Messico, El Salvador, Honduras, Colombia ed Ecuador dipendono dalle rimesse dei propri connazionali che lavorano negli Stati Uniti o in Europa. Poiché i lavoratori immigrati sono i primi a essere licenziati, costoro sono ora costretti a tornare a casa. Perciò questi Paesi sono allo stesso tempo privati di valuta straniera e obbligati ad assorbire un flusso di lavoro in un contesto di disoccupazione già crescente.
I riformisti hanno sostenuto che il “modello venezuelano” garantirebbe protezione dai problemi associati al “modello neo-liberista”. Ma si tratta di un’illusione riformista. Poiché la rivoluzione non è stata ancora portata a termine sino in fondo, il Venezuela è ancora sottoposto alle vicissitudini del mercato mondiale capitalista. Il crollo del prezzo del petrolio significa che le riforme del periodo passato sono minacciate. Morgan Stanley prevede una contrazione dell’economia sia in Venezuela che in Argentina nel 2009, rispettivamente dell’1% e del 2%. Questo significherà che le riforme e le misiones saranno in difficoltà. In aggiunta alla crisi generale del capitalismo, l’economia venezuelana subisce il sabotaggio e la serrata del capitale, mirati a destabilizzare il governo bolivariano e a causare malcontento di massa. Nonostante tutti gli appelli ai capitalisti, gli investimenti privati sono pressoché pari a zero e c’è anzi una fuga di capitali. Solo il settore statale mantiene l’economia.
Prima o poi la Rivoluzione dovrà decidere se avanzare e portare a termine la trasformazione socialista della società, oppure essere riportata indietro, un passo alla volta, fino alla sconfitta ingloriosa. La rivendicazione di drastiche misure per contrastare la controrivoluzione e per l’espropriazione delle aziende sotto controllo operaio sta crescendo, e la questione sarà all’ordine del giorno. In passato l’imperialismo statunitense sarebbe intervenuto militarmente per arrestare il processo, ma oggi ciò è molto difficile. Gli USA sono impantanati in Iraq e in Afghanistan e non possono permettersi di aprire un nuovo fronte in America Latina, che avrebbe conseguenze rivoluzionarie anche negli stessi Stati Uniti.
Adesso è un aut aut per la Rivoluzione Venezuelana. Le forze della borghesia controrivoluzionaria hanno tratto coraggio dal parziale avanzamento nelle elezioni di novembre, che ha fornito loro importanti punti di sostegno dai quali lanciare una nuova offensiva. La crisi economica darà loro ulteriore impeto. Chavez ha invocato nuove espropriazioni e propone di candidarsi nuovamente a Presidente. Potrebbe utilizzare la sua maggioranza nell’Assemblea Nazionale per approvare questa misura senza neppure passare attraverso un referendum. Questo provocherebbe scontri nelle strade, che porrebbero direttamente la questione del potere. Sono già tracciate le linee della battaglia che stabilirà il destino della Rivoluzione in un senso o nell’altro.
Questo sarà un periodo di enormi convulsioni e instabilità – un periodo di rivoluzione e controrivoluzione che può durare per anni, con flussi e riflussi. Nel passato, una situazione pre-rivoluzionaria o rivoluzionaria non sarebbe durata a lungo. Si sarebbe conclusa con la vittoria della rivoluzione o con quella della controrivoluzione nella forma di fascismo o bonapartismo. Ma nelle condizioni di oggi non è così. Nel passato, la borghesia in Europa e in ogni altro luogo aveva importanti riserve di sostegno tra la popolazione, soprattutto nel ceto dei piccoli proprietari terrieri. Non è più così. Il ceto medio dei piccoli proprietari è stato spazzato via dallo sviluppo del capitalismo, mentre la classe lavoratrice è cresciuta ed è diventata la maggioranza della società in molti Paesi. Nel passato gli studenti provenivano da famiglie ricche ed erano piuttosto inclini al fascismo. Ora nella maggior parte dei casi gli studenti sono di sinistra. La classe dominante non è abbastanza forte per muoversi in direzione reazionaria, ma la classe operaia è tenuta a freno dai propri dirigenti. Questo significa che la situazione attuale di equilibrio instabile tra le classi può durare per un certo tempo.
La rivoluzione non si muove mai in linea retta. Ci saranno inevitabilmente flussi e riflussi nel movimento, come ve ne furono in passato durante le rivoluzioni in Russia e in Spagna. Tra il febbraio e l’ottobre del 1917 ci furono periodi di enorme sollevazione, ma anche periodi di stanchezza, sconforto e perfino reazione (luglio-agosto). Lo stesso si può dire per la Spagna tra il 1931 e il 1937, con il Biennio Nero nel 1934-35. Ma in una situazione in cui il pendolo oscilla verso sinistra, simili “momenti di riflessione” sono soltanto il preludio per un nuovo e ancora più travolgente impeto rivoluzionario.
La situazione oggettiva in cui siamo entrati ora sarà molto più simile al periodo tra le due guerre mondiali, o agli anni ’70, che agli ultimi vent’anni. Condizioni simili tenderanno a produrre simili risultati. Le masse saranno molto più aperte alle nostre idee di quanto fossero in passato.
La degenerazione delle organizzazioni di massa ha raggiunto livelli senza precedenti nell’ultimo periodo. La socialdemocrazia ha abbandonato ogni finzione di lottare per il socialismo e gli ex “comunisti” hanno abbandonato ogni finzione di lottare per il comunismo. È un’ironia della storia che proprio adesso costoro abbiano rinunciato a ogni pretesa di combattere per un cambiamento rivoluzionario della società. Ora la storia si prenderà la sua vendetta su di loro.
I notevoli successi dei marxisti all’interno di Rifondazione Comunista in Italia e del Partito Comunista Francese sono un segno del profondo cambiamento che si sta verificando. Nel passato un simile mutamento sarebbe stato impensabile. Mostra l’esistenza di un profondo malcontento tra i militanti. Lo stesso malcontento esiste in tutte le organizzazioni di massa, e crescerà man mano che la crisi si sviluppa e le politiche dei dirigenti sono rivelate nella pratica.
È vero che la coscienza tende a restare indietro rispetto agli eventi, ma prima o poi recupera terreno in un colpo solo. Esattamente questo è il significato di una rivoluzione. Noi ci stiamo avvicinando a questo punto cruciale adesso. C’è un generale sviluppo di un atteggiamento anticapitalista nella società, non solo nella classe lavoratrice ma anche nel ceto medio. Persone che non hanno mai messo in discussione il capitalismo prima sono adesso sempre più scontente. Questa è una situazione molto pericolosa per la classe dominante. E la crisi è appena iniziata.
L’occupazione della fabbrica Republic Windows and Doors a Chicago (che ora è stata risolta con una vittoria dei lavoratori) mostra il potenziale rivoluzionario che cova anche negli stessi Stati Uniti. Si trattava perlopiù di lavoratori sottopagati latinoamericani. La fabbrica era stata costretta a chiudere perché le banche rifiutavano il credito, e i padroni non erano disposti a pagare ai lavoratori l’indennità di licenziamento. Questo è ciò che ha innescato l’occupazione. I lavoratori hanno detto: “non abbiano denaro per pagare i nostri mutui; perderemo non solo il nostro lavoro ma anche la nostra casa!” Così hanno occupato. Ma allora è stata sollevata la questione della proprietà. Tra gli operai si è fatta strada questa idea: lo stabilimento ci appartiene! Questo mostra con quanta rapidità la coscienza si trasforma nel corso della lotta.
In Belgio il grande gruppo bancario Fortis è crollato, e l’azienda è stata saccheggiata da capitalisti francesi e olandesi. Fortis era considerata una “Banca Popolare”. 700.000 persone possedevano delle azioni, che sono crollate perdendo il 90% del loro valore. Questo ha provocato un’ondata di rabbia diretta contro le banche. Ovunque vediamo la stessa indignazione contro banchieri e capitalisti, che sono obbligati ad appoggiarsi sui dirigenti della classe operaia per mantenere il proprio potere.
Nella crisi del capitalismo, i leader parlamentari dei lavoratori si aggrappano alla classe dominante e i leader dei sindacati si aggrappano ai dirigenti parlamentari. In simili periodi la classe dominante predilige i leader riformisti dei lavoratori al governo. La loro politica è usare e screditare. Utilizzeranno questi dirigenti per fare il lavoro sporco e poi li butteranno via come spazzatura. Quindi diranno alle masse: “Ora vedete che cosa significa il socialismo!” Così, si apre una contraddizione tra i vertici del movimento, che si spostano a destra, nella direzione della collaborazione di classe, e i militanti, che si muovono a sinistra, alla ricerca di soluzioni radicali e azione concreta. Prima o poi questa contraddizione interna deve essere sciolta. Il prossimo periodo vedrà ogni sorta di crisi e scissioni nelle organizzazioni tradizionali della classe operaia.
Grandi possibilità si stanno aprendo per i marxisti, e la crisi sociale è ancora nella sua fase iniziale. Con l’evolversi della crisi, la radicalizzazione della classe operaia raggiungerà livelli mai visti negli ultimi decenni. Idee che hanno ricevuto ascolto in questi anni soltanto da pochissimi troveranno ora un pubblico di massa. Si getteranno le basi per la creazione di tendenze marxiste di massa ovunque. Questa è, in ultima analisi, l’unica garanzia per la futura trasformazione socialista della società.
Londra, 15 dicembre 2008
Source: FalceMartello