Il viaggio a Taiwan della speaker della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, Nancy Pelosi, ha portato la questione nazionale taiwanese al centro della politica mondiale. Benché Taiwan, di fatto, sia uno Stato indipendente, il governo cinese ha sempre sostenuto che l’isola faccia parte del suo territorio. Nel frattempo, gli Stati Uniti tengono da decenni una posizione volutamente ambigua sulla questione. La visita di Pelosi è la goccia che ha fatto traboccare il vaso di questo delicato equilibrio, che, se capovolto, potrebbe minacciare la stabilità dell’intera regione.
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[Questo articolo è stato scritto sei mesi fa ed è stato leggermente modificato alla luce degli ultimi fatti.]
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Nel corso del suo recente tour a tappe, Pelosi ha dato “ferree” garanzie sulla determinazione degli Usa a “proteggere la democrazia” a Taiwan. Tuttavia le sue parole a “difesa della democrazia” e dei “diritti umani” sull’isola non nascono da una preoccupazione autentica per il popolo taiwanese e i suoi diritti democratici: si tratta, in realtà, di minacce velate lanciate da un’esponente dell’imperialismo statunitense al suo rivale più potente sullo scenario mondiale, la Cina.
A questo scopo, gli americani e i loro tirapiedi sull’isola-nazione hanno alimentato le fiamme del nazionalismo taiwanese, e il rapporto con la Cina è divenuto l’argomento cardine della politica taiwanese. In tutti questi dibattiti, la questione cruciale riguarda lo status formale del Paese.
Che ne sarà del destino di Taiwan? Dovrebbe dichiarare l’indipendenza formale, che le permetterebbe cioè di instaurare relazioni diplomatiche ufficiali con le altre nazioni e di prendere posto nei consessi internazionali come le Nazioni Unite? O non c’è altra strada all’unificazione con la Cina, come regione sotto il controllo dello Stato cinese? Negli ultimi anni la questione è stata posta in modo sempre più dirimente dalle forze borghesi su entrambi i lati del dibattito a Taiwan.
Ma noi, da marxisti, ci rifiutiamo di prendere parte a quella che, dal punto di vista dei lavoratori e dei poveri, è una falsa dicotomia: una scelta fra due campi reazionari – l’imperialismo Usa da una parte e la Cina dall’altro – nessuno dei quali offre una vera soluzione.
Su basi capitaliste, la questione nazionale taiwanese può essere “risolta” solo in modi estremamente reazionari. La sua vera risoluzione, infatti, è inseparabile dalle prospettive di una rivoluzione in Cina e nell’Estremo oriente, e i marxisti, i lavoratori e i giovani devono prestare grande attenzione alla natura e agli sviluppi della situazione. Questo documento è stato scritto proprio con questo scopo: aiutare i marxisti a comprendere le dinamiche della questione e i compiti che ne derivano.
L’imperialismo Usa
Malgrado la questione nazionale taiwanese presenti dinamiche e sviluppi particolari, il ruolo giocato da Taiwan nel mondo capitalista di oggi resta in larga misura subordinato alla rivalità fra gli Usa e la Cina.
Gli ultimi sviluppi legati alla visita di Pelosi rappresentano il culmine di anni di tensioni crescenti fra gli Stati Uniti e la Cina. La classe dominante americana nella sua interezza, dagli Obama ai Trump ai Biden, concorda sul fatto che la Cina sia la maggiore potenziale minaccia alla posizione dell’imperialismo statunitense. È questa la ragione del cosiddetto pivot to Asia (fulcro sull’Asia) perseguito dagli Stati Uniti trasformando un Paese dopo l’altro in un campo di battaglia del conflitto. In questo contesto, la questione nazionale taiwanese ha assunto una importanza, rinnovata, come riflesso della crescente contraddizione fra le due potenze.
Grazie a quella che viene presentata come “difesa della democrazia taiwanese”, l’imperialismo Usa sta gradualmente ampliando le proprie ingerenze militari, diplomatiche ed economiche sull’isola, che si trova nel mar Cinese orientale. Nel solo biennio 2019-2020, l’amministrazione Trump ha accordato a Taiwan un rifornimento di armi per un valore di oltre $15 miliardi, che comprende 108 carri armati M1A2T Abrams, modelli relativamente nuovi, e una quantità di missili pari a 180 milioni di dollari. L’amministrazione Biden è intenzionata a proseguire su questa linea. L’anno scorso è peraltro trapelato che sull’isola sono presenti forze speciali americane, distaccate nel Paese per una “missione di addestramento”. Naturalmente la versione ufficiale vuole che si tratti di armamenti difensivi, ma possiamo solo immaginare come reagirebbe l’America se la Cina cominciasse ad armare o “addestrare” l’esercito cubano o messicano. In maniera piuttosto similare al rapporto che intrattiene con il regime ucraino, l’imperialismo statunitense considera Taiwan una testa di ponte nel suo conflitto con la Cina.
Per decenni la politica ufficiale degli Stati Uniti è consistita nel mantenimento di rapporti informali con Taiwan senza riconoscerla ufficialmente come Paese separato dalla Cina. Al posto di un’ambasciata, per esempio, esiste un American Institute in Taiwan, e tradizionalmente non vi sono stati contatti pubblici e diretti al vertice fra i governi americano e taiwanese. Nel 2016, però, Donald Trump ha sconfessato questa consuetudine con una telefonata ufficiale alla presidente taiwanese Tsai Ing-wen, la prima del genere dal 1979. Da allora si sono susseguite un numero sempre maggiore delegazioni di membri del Congresso degli Stati Uniti per fare visita all’isola, ai suoi politici e, soprattutto, alle fabbriche di produzione dei microchip.
La visita di Pelosi, durante la quale la speaker ha incontrato e discusso con la presidente taiwanese, è stata la provocazione più sfacciata – accolta peraltro con grande fervore dai repubblicani al Congresso.
Pur continuando ad attenersi alla politica dell’“unica Cina”, e quindi guardandosi bene dal proporre che Taiwan diventi formalmente indipendente, è chiaro che gli Stati Uniti hanno abbandonato la diplomazia, attentamente calibrata, dell’“ambiguità strategica”, che ha costituito sin qui il perno dei rapporti con Taiwan. In una conferenza stampa del novembre 2021, Joe Biden si è lasciato sfuggire che Taiwan “è indipendente”. In un secondo momento, interrogato su questa evidente deviazione dalla tradizionale politica statunitense, Biden ha fatto marcia indietro sostenendo che gli Stati Uniti non “incoraggiano l’indipendenza”, ma che spetta a Taiwan “decidere per sé” sulla questione. È chiaro che Biden ha lasciato sottinteso di guardare con favore all’indipendenza taiwanese.
Dichiarazioni come questa hanno lo scopo di presentare l’imperialismo statunitense come difensore dei diritti e delle aspirazioni democratiche del popolo taiwanese. È però degno di nota che il medesimo diritto a “decidere per sé” non venga concesso da Biden anche ad altre piccole nazioni come i palestinesi e i curdi, da decenni vittime di oppressione imperialista. Non c’è nessuna “difesa della democrazia” che tenga per chi viene oppresso da alleati stretti degli Usa come l’Arabia Saudita o Israele, eppure a Taiwan, per qualche misteriosa ragione, dovremmo credere nelle buone intenzioni degli Stati Uniti.
La storia dimostra che ogni volta che Washington comincia a parlare di “difesa della democrazia”, “diritti umani” o del diritto delle nazioni a “decidere per sé”, si prepara un grande tradimento. Le piccole nazioni vengono sempre viste come “pochi spiccioli” nei bisticci tra grandi potenze. Quelle stesse potenze che oggi strillano sul diritto delle nazioni all’autodeterminazione non si faranno scrupoli, domani, ad abbandonare quelle nazioni a chi vorrà sottometterle, se farà comodo ai propri interessi.
Gli interessi dell’imperialismo Usa
Le azioni dell’imperialismo Usa non hanno nulla a che fare con la “difesa della democrazia taiwanese”. Si tratta di atti cinici volti a indebolire la Cina, che gli Stati Uniti vedono come potenziale futura minaccia alla propria posizione di potenza dominante globale. Gli americani vedono Taiwan come un mezzo per limitare geograficamente la Cina. Taiwan è importantissimo da un punto di vista militare, economico e commerciale. Allo stato attuale, la vasta maggioranza del commercio cinese passa attraverso lo stretto di Malacca; per gli Usa non sarebbe difficile chiuderlo, isolando la Cina. Se invece Pechino dovesse prendere il controllo di Taiwan, controllerebbe anche alcune rotte commerciali chiave, indisturbata dagli Stati Uniti.
Taiwan è anche un nodo importante dell’economia mondiale e, grazie alla sua stretta integrazione con l’economia cinese, una leva fondamentale per esercitare pressione sulla Cina. È cruciale che Taiwan ospiti la Tsmc, il più grande produttore di microchip al mondo. Miliardi di chip creati dalla Tsmc vanno a finire nei prodotti cinesi. La produzione di microchip è un settore vitale in cui l’industria interna cinese è ancora indietro rispetto all’occidente, e pertanto vulnerabile alla pressione occidentale. Gli Usa hanno già costretto la Tsmc a rinunciare a vendite alle aziende cinesi per miliardi di dollari. Regolarmente spuntano nuovi divieti e restrizioni con l’obiettivo di inibire lo sviluppo dell’economia cinese.
In questa fase gli Usa non hanno l’intenzione di spingere Taiwan a dichiararsi formalmente indipendente. Sanno che questo potrebbe portare a uno scontro militare con Pechino che non hanno alcun interesse di affrontare. Nondimeno, il loro atteggiamento sempre più bellicoso nei confronti della Cina – tra cui figurano l’attuale guerra commerciale; la pressione su Taiwan per disaccoppiare la propria economia da quella cinese; l’appoggio al nazionalismo taiwanese; e azioni improvvide e provocatorie come la visita di Nancy Pelosi – rischiano di destabilizzare il delicato equilibrio che da decenni è alla base della stabilità regionale.
La Cina
Nel frattempo il presidente cinese Xi Jinping ha alzato i toni contro quello che chiama “separatismo taiwanese”, insistendo a ogni piè sospinto che l’unificazione di Taiwan alla Cina “deve essere portata a compimento”. Per sottolineare la serietà delle sue ambizioni, e allo scopo di darsi un tono nei confronti degli Usa, la Cina conduce regolari manovre militari nell’area che circonda Taiwan.
Buona parte di tutto ciò ha l’intento di istigare un clima di isteria nazionale, per superare e deviare la crescente rabbia di classe che cova all’interno della stessa Cina. Nel lungo periodo, però, la classe dominante cinese considera il controllo di Taiwan essenziale anche per consolidare il proprio ruolo nella politica mondiale.
Fino a poco tempo fa l’imperialismo statunitense era la potenza militare, diplomatica ed economica egemone nell’Estremo oriente. Tuttavia, sulla scorta del rapido sviluppo del capitalismo cinese negli ultimi decenni, gli Usa non possono più fregiarsi di questo titolo. La Cina è oggi la seconda economia al mondo ed ha costruito un esercito formidabile. Oggi è la Cina la principale potenza in Estremo oriente, ed è proiettata verso il divenire una potenza imperialista su scala globale nel futuro.
Taiwan è vista come un fattore chiave perché la Cina possa rompere l’isolamento economico e militare. Come gli Stati Uniti dovettero dominare i Caraibi per assurgere a potenza mondiale, per fare lo stesso la classe dominante cinese deve prendere il controllo dei mari Cinese orientale e meridionale.
Lo sviluppo del capitalismo cinese e la crisi dell’imperialismo statunitense stanno aggravando le tensioni fra le due potenze in tutta l’Estremo oriente. Non si può escludere che, a un certo punto nel futuro, l’imperialismo americano spinga Taipei a dichiarare ufficialmente l’indipendenza, o ad altre azioni che potrebbero provocare un intervento militare cinese. Questa possibilità potrebbe concretizzarsi come mossa deliberata per impaludare la Cina e logorarla nel tempo – che era poi lo stesso obiettivo degli Usa nel provocare la guerra in Ucraina, in relazione alla Russia –, oppure come conseguenza non voluta della promozione continua del nazionalismo taiwanese. Sarebbe uno sviluppo estremamente reazionario della situazione, foriero di un conflitto militare in grado di destabilizzare l’intera regione.
Al momento, però, se da una parte né gli Usa né la Cina vogliono sconvolgere lo status quo che da quarant’anni garantisce la stabilità nello stretto di Taiwan, dall’altra i loro interessi cozzano sempre più. Questi scontri hanno trovato un riflesso anche all’interno della classe dominante taiwanese, sempre più divisa tra due fazioni, ciascuna delle quali tende verso una grande potenza o l’altra.
Schiacciata tra Cina e Stati Uniti, Taiwan sta diventando uno Stato cuscinetto, un campo di battaglia per i conflitti fra le due superpotenze. Le chiacchiere dell’Occidente sulla “difesa della democrazia” sono uno specchietto per le allodole per coprire gli interessi predatori dell’imperialismo statunitense. Lo stesso vale anche per “gli interessi della nazione cinese” professati da Xi, mera copertura per gli interessi della classe capitalista e della burocrazia statale cinesi.
La questione nazionale taiwanese
Piccola isola periferica all’incrocio tra ben più grandi potenze, Taiwan ha una lunga storia di colonizzazione e oppressione. I primi a insediarvisi, quasi 4 000 anni fa, furono gli austronesiani, da cui sorsero vivaci e variegate culture. Nei secoli XVIII e XIX l’isola vide l’influsso massiccio soprattutto di contadini cinesi poveri in fuga dalla povertà della Cina del sud. Questi ultimi hanno spinto con violenza gli aborigeni, un tempo agricoltori, verso le montagne, in modo da coltivare la terra secondo le tradizionali relazioni contadine cinesi. Ma anche dopo che i cinesi han si furono imposti come popolazione dominante, Taiwan rimase marginale nei confronti dell’impero cinese, perlopiù ignorata, e soggetta a un susseguirsi di invasioni e tentativi di colonizzazione da parte di olandesi, spagnoli, pirati giapponesi, e così via. Dal 1895 fino alla fine della Seconda guerra mondiale fu sotto il dominio giapponese. Questa lunga storia di gioghi stranieri alimentarono nel popolo taiwanese oppresso un profondo sentimento anticoloniale.
Quando, nel 1945, all’indomani della Seconda guerra mondiale, Taiwan fu lasciata nelle mani del regime reazionario del Kuomintang (Kmt), ebbe luogo una corsa allo studio del mandarino, poiché la maggioranza dei taiwanesi usava il giapponese e il taiwanese come lingua franca.
Prima che il dominio del Kmt riuscisse a imporsi definitivamente, le masse taiwanesi diedero vita a un’ondata di attività democratiche e di sindacalizzazione. Le attendeva un brusco risveglio quando il Kmt mise fuori legge tutte queste attività e informò i taiwanesi che, essendo “schiavi” indottrinati dai giapponesi, avrebbero dovuto acquisire i propri uguali diritti come cittadini conformandosi alle imposizioni culturali scioviniste del Kmt. La popolazione fu obbligata a parlare mandarino e si poteva venire puniti per aver parlato taiwanese. Gli abitanti locali dovettero inoltre adottare nuove identità “cinesi” secondo gli standard del Kmt, mentre molti costumi locali vennero soppressi. Anche gli indigeni vennero costretti a rinunciare ai propri nomi autoctoni per adottarne di cinesi, cedendo al contempo tutti i privilegi ai burocrati del Kmt, ai padroni legati al partito e ai loro lacchè. Lo sciovinismo del Kmt fu la miccia della rivoluzione del febbraio 1947, soggetta a una brutale repressione.
Frattanto, anche la terraferma era attraversata dalla marea della rivoluzione contro il Kmt. Non è questo lo spazio per approfondire il carattere particolare della rivoluzione cinese del 1949. Basti dire che l’offensiva di Mao Zedong e del suo esercito contadino portò all’abbattimento del vecchio ordine e alla nascita di uno Stato operaio deformato con un’economia pianificata. La borghesia controrivoluzionaria guidata dal Kmt, insieme ai resti del vecchio apparato statale cinese, fu costretta a fuggire a Taiwan come ultimo rifugio.
Riorganizzatosi sull’isola, il Kuomintang instaurò una dittatura brutale e, con l’avvallo dell’imperialismo Usa, continuò a rivendicare il controllo della Cina continentale. È questo il motivo per cui l’apparato statale taiwanese, continuazione del vecchio Stato del Kuomintang, si chiama tuttora Repubblica cinese. Ciò svela la perdurante ambizione imperialista della vecchia classe dominante cinese, giunta al seguito del Kmt, di riprendersi la terraferma. Nel corso del tempo i due settori della classe dominante di Taiwan, la borghesia apparentata al Kmt e l’élite pre-1949, si sono fuse nella classe dominante taiwanese che conosciamo oggi. Lo strumento fondamentale con cui questa classe mantiene il potere è lo Stato della Repubblica cinese, in origine importato dalla Cina continentale.
È questo il fattore più importante per capire l’entità che esiste oggi sull’isola di Taiwan. Il capitalismo taiwanese ha un corpo armato di uomini totalmente indipendente, composto da un esercito, una polizia, un sistema giudiziario e carcerario, che difende il dominio totale della borghesia taiwanese sull’isola principale e sul resto dei suoi territori (Penghu, Kinmen, Matsu, Orchid Island, Green Island e altri isolotti nel mar Cinese meridionale). Pertanto Taiwan, qualunque sia il nome ufficiale che assume, è già uno Stato democratico borghese pienamente indipendente. Ogni altra considerazione non fa che distorcere la questione.
Contro lo sciovinismo cinese
Se da una parte i popoli della Cina e di Taiwan sono accomunati da molti elementi culturali, il lungo periodo di separazione ha portato allo sviluppo di una nazione taiwanese con una storia e cultura proprie.
L’unificazione con la Cina è rimasta relativamente popolare a Taiwan per diversi decenni, con circa un terzo dei taiwanesi costantemente indirizzati verso questa opzione. Il popolo taiwanese si vedeva tanto taiwanese quanto cinese. I sondaggi di trent’anni fa rivelano che il 46,4% degli abitanti di Taiwan si considerava sia taiwanese che cinese, mentre solo il 25,5% si considerava puramente cinese e appena il 17,6% esclusivamente taiwanese. Oggi, però, queste cifre sono drasticamente cambiate: il 67% della popolazione si considera strettamente taiwanese e solo il 2,4% esclusivamente cinese.
Il venirsi a formare della nazione taiwanese come marcatamente distinta da quella cinese riflette in parte lo storico odio nutrito verso il regime del Kuomintang. Fino agli anni ’90 il partito e il suo apparato statale – la Repubblica cinese – esercitavano una feroce dittatura basata sullo sciovinismo cinese han.
La cultura, la lingua e i costumi della borghesia cinese fuggita dalla terraferma nel 1949 erano considerati l’unica cultura legittima di Taiwan, mentre la cultura e la storia dei popoli locali erano tacciate di essere “da schiavi” e tenute in posizione subordinata.
Sotto l’impatto di questa oppressione si sviluppò un vasto movimento composto da attivisti di varie classi, uniti dalla volontà di rovesciare la dittatura del Kmt. È quanto divenne noto come il “movimento per l’indipendenza taiwanese”, sinonimo di nazionalismo taiwanese. Denominatore comune di questa tendenza è l’obiettivo di instaurare uno Stato borghese sull’isola denominato Taiwan anziché Cina.
Negli anni ’80 e ’90 scoppiò una lotta di massa per la democrazia contro il Kuomintang e il suo sciovinismo cinese. In mancanza di un partito rivoluzionario della classe operaia, la direzione di questi movimenti cadde nelle mani degli indipendentisti taiwanesi, dominati da coloro che sarebbero poi andati a formare il Partito democratico progressista (Pdp). Così, in modo piuttosto confuso, questa lotta per la democrazia passò alla storia anche come lotta per “l’indipendenza” – indipendenza, cioè, dal vecchio Stato del Kuomintang, dalla Repubblica cinese, e implicitamente anche dalla sua grande ambizione di riconquistare la Cina.
Alla fine queste lotte costrinsero il Kmt a concedere ampie riforme politiche di stampo democratico. I dirigenti del Pdp, le cui prospettive e programmi non includevano il rovesciamento del capitalismo, finirono però per accontentarsi delle concessioni del Kmt. Su questa base venne mantenuto lo Stato della Repubblica cinese, anche se la forma di governo passò dal bonapartismo alla democrazia borghese, i cui due principali partiti in lizza per il potere rimasero il Kmt e il Pdp. Da allora il Kmt si regge principalmente sulla rivendicazione di un avvicinamento dei rapporti (nella prospettiva dell’unificazione) con la Cina sotto il Pcc, mentre il Pdp si è vagamente allineato con i sentimenti “pro-indipendenza”, soprattutto per ragioni elettorali.
Nonostante i limiti dei successi conseguiti dal movimento degli anni ’90, la lotta delle masse taiwanesi conquistò comunque alcuni diritti democratici. La Cina, d’altro canto, è rimasta una dittatura, pur trasformandosi a sua volta in un regime capitalista. La situazione si presentava dunque, come osservato con arguzia dal dirigente sindacale Zeng Maoxing, con la Cina e Taiwan come “non un Paese con due sistemi, ma un sistema con due Paesi”. Si tratta di un fattore che ha ulteriormente raffreddato il clima a favore dell’unificazione con la Cina. Fu inoltre allora che il Pcc cominciò a minacciare un’azione militare contro Taiwan qualora quest’ultima avesse rinunciato alla prospettiva dell’unificazione.
Hong Kong 2019: un punto di svolta
La svolta maggiore nell’opinione pubblica ha però avuto luogo negli ultimi anni, in particolare nell’estate del 2019, quando a Hong Kong scoppiò un vasto movimento contro la limitazione dei diritti democratici, che generò un’ondata di solidarietà in tutta l’Asia. Pertanto, quando quest’ultimo fu sconfitto, l’umore di vasti settori delle masse nella regione virò verso una forte ostilità nei confronti dello Stato cinese.
In quei giorni Taiwan era nel pieno della campagna elettorale per le presidenziali. Per Tsai Ing-wen, la leader in carica del Pdp, si annunciava un’umiliante sconfitta. Il Pdp veniva da anni di politiche di austerità e tradimenti e i sondaggi lo davano per spacciato. Intanto, Han Kuo-yu, candidato del Kuomintang nettamente filocinese, stava avanzando sulla base di una campagna di retorica demagogica e antisistema che prendeva di mira gli eccessi del Pdp.
Arrancanti dietro al Kuomintang, Tsai e il Pdp videro nei fatti di Hong Kong l’occasione per una brusca sterzata verso l’aperta isteria anticinese. Sullo sfondo della repressione delle masse di Hong Kong da parte della Cina, venne creato ad arte un clima di “rovina nazionale”, dando l’impressione che su Taiwan incombesse la minaccia della conquista da parte della Cina e dei suoi tirapiedi locali del Kmt, e che quindi tutti i diritti democratici del popolo taiwanese potevano essere sotto attacco. Su questa base, Tsai e il Pdp ribaltarono i sondaggi e alla fine ottennero una vittoria schiacciante, aggiudicandosi il controllo pieno e soverchiante della presidenza e del parlamento.
È un vecchio trucco, naturalmente. Dopo aver passato anni ad attaccare le condizioni della classe lavoratrice taiwanese, generando un odio generalizzato verso il Pdp, Tsai comincia a puntare il dito verso una minaccia esterna al fine di sviare l’attenzione dai crimini del suo stesso partito. Nel momento in cui stavano cominciando a mostrarsi, molto lentamente, le contraddizioni di classe, il Pdp riuscì a polarizzare la società su linee nazionali ed a montare un clima di nazionalismo taiwanese e isteria anticinese. Di conseguenza, ci fu un crollo delle opinioni favorevoli all’unificazione con la Cina.
Se però la maggior parte della popolazione, temendo uno scontro militare con la Cina, era ancora per lasciare intatto lo status quo, cominciò ad aumentare anche l’appoggio al passaggio all’indipendenza formale.
Un recente sondaggio ha rivelato che, mentre nel 2018 era il 15,1% della popolazione a caldeggiare il mantenimento dello status quo pur muovendosi verso l’indipendenza formale, nel giugno del 2020 la cifra era quasi raddoppiata al 27,7%. Nel frattempo la percentuale di chi era a favore di preservare lo status quo mirando all’unificazione con la Cina era caduta dal 12,8 al 6,8% della popolazione: la cifra più bassa almeno dal 1994.
Cosa comporterebbe l’indipendenza?
L’attuale campo pro-indipendenza nell’arena politica di Taipei, al quale si è associato il Pdp, si basa su una retorica anticinese e sulla minaccia che la Cina costituirebbe per la democrazia borghese taiwanese. In varie forme, i partiti di questo campo sostengono che dichiararsi formalmente indipendenti sia essenziale per preservare la democrazia taiwanese. Ma è pura demagogia.
La realtà è che Taiwan è uno Stato-nazione pienamente indipendente in tutto, tranne che sulla carta – almeno entro i limiti in cui una nazione di piccole dimensioni può essere indipendente sotto il capitalismo. È lo Stato taiwanese che decide e applica le leggi a Taiwan, che stabilisce i rapporti con gli altri Stati, che distribuisce passaporti taiwanesi accettati pressoché dappertutto, e le aziende con base a Taiwan operano liberamente sui mercati mondiali.
L’unica differenza fra l’attuale status quo e la situazione che seguirebbe alla dichiarazione d’indipendenza di Taiwan sarebbe l’assorbimento del Paese nelle organizzazioni internazionali a guida occidentale come le Nazioni Unite e il Fondo monetario internazionale. L’indipendenza formale permetterebbe inoltre a Taiwan di instaurare relazioni diplomatiche ufficiali con le altre nazioni; o meglio, con le nazioni al di fuori della sfera d’influenza cinese. Ma questi sviluppi non avrebbero alcun impatto significativo sulle vite dei lavoratori e dei giovani taiwanesi comuni.
Quindi quando i liberali taiwanesi adottano posizioni considerate anticinesi o pro-indipendenza, esse sono in realtà filoamericane e pro-occidentali. Per Taiwan non significherebbero l’indipendenza. Significherebbero piuttosto una subordinazione ancora più accentuata agli interessi delle banche e dei grandi monopoli degli Usa e delle altre potenze occidentali.
L’imperialismo statunitense è il nemico delle masse a Taiwan e altrove, ed è dovere dei marxisti mettere in guardia la classe lavoratrice contro ogni illusione nei suoi confronti. Il nostro compito è smascherare i veri interessi di classe dietro la pomposa retorica dei liberali e degli imperialisti.
Una falsa dicotomia
Con l’intensificarsi del conflitto fra la Cina e gli Stati Uniti in Asia, la questione nazionale acquisirà a sua volta forme sempre più acute. In queste condizioni, anziché legarsi mani e piedi a un campo reazionario o all’altro, il compito dei marxisti consiste prima di tutto nello smascherare gli interessi di classe dietro i diversi campi.
Il Pdp chiede alla nazione di unirsi contro la Cina. “O siete con noi o state con loro”, dicono. In effetti, il Pdp e i partiti che gli fanno da spalla, come il Partito della costruzione dello Stato di Taiwan, hanno portato questa logica isterica all’estremo, e tacciano tutti quelli che si oppongono al governo per qualsiasi ragione, specie i lavoratori in lotta, di essere “agenti cinesi” o “filocinesi”.
Ma questa è una falsa dicotomia che i marxisti respingono fermamente. Non ci può essere unità fra la classe lavoratrice e i capitalisti, cioè fra gli sfruttati e i loro sfruttatori, indipendentemente dalla loro nazionalità.
I problemi dei lavoratori e dei poveri taiwanesi non sono legati alla questione dell’indipendenza. Le pressioni sempre maggiori sul tenore di vita, l’aumento dei ritmi di lavoro, l’austerità e la corruzione a Taiwan non sono imposizioni dello Stato cinese, bensì dei capitalisti taiwanesi, classe il cui principale rappresentante al momento è il Pdp. Quanto chiede il Pdp, in altre parole, è che la classe lavoratrice subordini i propri interessi a quelli della classe dominante.
L’unica via per i lavoratori, se vogliono sfuggire a questa eterna spirale al ribasso, è rovesciare la classe capitalista taiwanese e avviare la trasformazione socialista della società.
Per farlo è necessaria non l’unità nazionale, ma la lotta di classe rivoluzionaria. Contro le raffiche di isteria
anticinese, noi diciamo quindi: “Il nemico principale è in casa!” Il primo nemico della classe lavoratrice taiwanese è la classe capitalista taiwanese, capitanata oggi dal Pdp.
La lotta contro il capitalismo taiwanese è inseparabile dalla lotta contro il nazionalismo taiwanese, che non gioca più alcun ruolo progressista per le masse dell’isola e, anzi, contribuisce attivamente a ostacolare l’emancipazione del proletariato taiwanese. Per combattere la classe dominante di Taipei, i marxisti e i rivoluzionari devono combattere una lotta senza compromessi per svelare la natura reazionaria del nazionalismo taiwanese.
L’esperienza di Hong Kong
Come hanno scritto Marx ed Engels nel Manifesto comunista, la classe operaia non ha nazione. Gli operai taiwanesi, cinesi, giapponesi e coreani hanno molto più in comune tra loro che con le rispettive classi dominanti. I marxisti lottano per un mondo senza frontiere, dove i lavoratori di tutte le nazioni possano vivere in pace e armonia sulla base della cooperazione internazionale.
Mentre le classi dominanti traggono vantaggio dalla divisione della classe lavoratrice su linee nazionali, noi cerchiamo sempre di costruire il massimo livello di unità tra tutti i lavoratori del mondo. Senza questa unità il successo della rivoluzione socialista sarebbe, in ultima analisi, impossibile.
Taiwan è un ottimo esempio. L’idea che un’isola di socialismo taiwanese possa sopravvivere nel lungo periodo, alle porte di una Cina capitalista, è pura utopia. Se a Taiwan ci fosse una rivoluzione socialista, lo Stato cinese – probabilmente con l’appoggio degli Usa – reagirebbe con la massima brutalità nel tentativo di soffocarla prima che possa diffondersi dentro i suoi stessi confini.
Inoltre, come abbiamo spiegato in un precedente articolo pubblicato dal La Scintilla (la Tmi a Taiwan), la prossimità culturale, linguistica e geografica di Taiwan e Cina favorisce inevitabilmente uno stretto legame tra le lotte di classe su entrambi i lati dello stretto.
Il compito di lottare contro il capitalismo taiwanese è perciò direttamente collegato a quello di combattere il capitalismo cinese. Ma questa lotta può essere condotta solo su basi di classe. Senza una posizione proletaria indipendente, tutte le strade portano al nazionalismo reazionario, che non risolverà proprio nulla. Qui tornano utili i preziosi insegnamenti tratti dal movimento di Hong Kong del 2019.
Nelle prime fasi di quel movimento, che videro più di un milione di persone scendere in piazza e mentre si facevano sempre più insistenti le richieste di uno sciopero generale, il regime del Pcc rimase come stordito. Il suo timore più grande era che la rivoluzione hongkonghese potesse collegarsi alla rabbia e al malcontento che stavano crescendo nella classe operaia cinese. In effetti, molti lavoratori e giovani radicali cinesi guardavano con simpatia al movimento.
Tuttavia, dirigenti liberali come Joshua Wang e compagnia cominciarono a spingere il movimento in una direzione anticinese reazionaria, rivolgendosi al contempo alle potenze occidentali. Addirittura, Wang e una delegazione di liberali visitarono gli Stati Uniti e chiesero sanzioni economiche[contro la Cina. Questa mossa fu correttamente interpretata dalle masse della terraferma come un attacco dell’imperialismo Usa contro la Cina, attacco che avrebbe gravemente nuociuto alle condizioni di vita dei lavoratori e dei poveri.
Senza il minimo interesse per qualsivoglia forma di unità con la classe operaia cinese, il Movimento per l’autonomia di Hong Kong organizzò grandi manifestazioni piene di bandiere statunitensi, implorando l’aiuto dell’amministrazione Trump. Questi elementi propugnavano una linea distintamente anticinese e legavano la rivendicazione di diritti democratici – che di per sé sarebbe stata molto popolare in Cina – con la vetero-nostalgia per il colonialismo britannico e l’imperialismo Usa. Nei fatti tutta la loro strategia si riduceva a mettersi al servizio di Donald Trump, nel tentativo cosciente di trasformare il movimento in un agente dell’imperialismo statunitense contro la Cina.
Ma anziché rafforzare il movimento, l’alleanza con gli Stati Uniti giocò a favore del regime del Pcc. Xi Jinping poté sfruttarla a proprio vantaggio presentando il movimento agli occhi del pubblico cinese come una congiura imperialista. Dal punto di vista politico, il movimento di Hong Kong perse così ogni contatto con i lavoratori cinesi.
Se non altro, fu il nazionalismo cinese a uscirne consolidato sul piano interno. In altre parole, fu d’aiuto al regime cinese nell’annacquare le contraddizioni di classe in Cina e compattare la classe operaia dietro la sua repressione del movimento hongkonghese. Gli esiti furono fatali. Di fatto, i dirigenti nazionalisti e filo-occidentali di Hong Kong avevano gettato le basi politiche per la sconfitta del movimento.
Come spiegammo all’epoca, l’unica via per una vittoria decisiva sarebbe stata rivolgersi direttamente alle masse della Cina continentale. Se i dirigenti hongkonghesi si fossero basati su un programma di classe e avessero fatto appello ai lavoratori cinesi ad unirsi in una lotta comune contro la classe dominante cinese, avrebbero trovato una vasta eco.
A partire dagli operai della vicina provincia del Guangdong, fondamentale hub industriale, il movimento si sarebbe potuto diffondere in Cina. Invece, rivolgendosi all’imperialismo statunitense e britannico e presentando gli interessi del popolo di Hong Kong come contrapposti rispetto a quelli del popolo cinese, i liberali si inimicarono la classe operaia sulla terraferma.
A Taiwan siamo davanti a uno scenario simile. La lotta per il socialismo sull’isola non può essere scollegata dalla lotta per il socialismo in Cina. E ciò è possibile solo attraverso una lotta attiva contro il nazionalismo taiwanese. La classe lavoratrice taiwanese non può permettersi di essere vista pendere anche minimamente verso l’imperialismo statunitense o i suoi lacchè del Pdp. Ciò la separerebbe immediatamente dai lavoratori cinesi, che vedono nell’imperialismo Usa il loro nemico, com’è corretto che sia.
Ecco perché il principale slogan dei marxisti taiwanesi deve essere “No all’imperialismo Usa!” Questo non solo manderebbe un segnale ai lavoratori cinesi che non siamo loro nemici, ma inoltre delineerebbe con chiarezza le linee di classe all’interno di Taiwan, dove l’ala egemone della classe dominante è composta dagli agenti dell’imperialismo americano.
Unificazione?
Al capo opposto dello spettro politico borghese di Taipei, il Kuomintang fino a poco tempo fa era apertamente a favore dell’unificazione con la Cina. Ironicamente, quello che era un tempo il partito dell’imperialismo cinese, che aveva giurato di sconfiggere l’ex Stato operaio deformato in Cina e riconquistare tutti i suoi territori, è ora ridotto al rango di burattino della Cina stessa.
Tuttavia, a causa delle recenti drastiche svolte nell’opinione pubblica dopo i fatti di Hong Kong, il Kuomintang ha dovuto in qualche misura diminuire il suo sostegno totale all’unificazione nelle sue dichiarazioni ufficiali. Se però in pubblico può avere fatto un passo indietro, il Kuomintang rappresenta comunque la parte della borghesia taiwanese che caldeggia una maggiore integrazione con la Cina continentale.
Ma nemmeno questa è un’autentica alternativa per le masse taiwanesi. L’unificazione con la Cina su basi capitaliste non sarebbe altro che la sottomissione di Taiwan e della classe lavoratrice taiwanese agli interessi del capitalismo cinese e porterebbe alla riduzione dei diritti democratici conquistati negli anni ’90. Ecco perché la maggioranza del popolo taiwanese è contraria. Questa unificazione potrebbe avere luogo solo con l’uso della forza e contro la volontà delle masse. Ma un’unificazione su queste basi sarebbe terribilmente deleteria per gli interessi della lotta di classe: rafforzerebbe tanto il nazionalismo cinese quanto quello taiwanese e creerebbe profonde tensioni fra i lavoratori cinesi e taiwanesi, spingendoli tra le braccia delle rispettive classi dominanti.
Il nostro compito in quanto marxisti è di alzare la bandiera della lotta unitaria delle classi lavoratrici di Taiwan, della Cina e del resto della regione contro tutte le classi dominanti locali. Compito del proletariato taiwanese è anzitutto lottare per il socialismo a Taiwan. Se avesse successo, questa lotta produrrebbe un’enorme eco in tutta la regione, dove centinaia di milioni di lavoratori e di poveri soffrono per mano delle rispettive classi dominanti. Abbiamo avuto un assaggio di questo potenziale durante il movimento di Hong Kong, che aveva rapito l’immaginazione di milioni di persone in tutta la regione, Cina continentale compresa.
In queste condizioni la rivoluzione taiwanese potrebbe fare appello con successo ai lavoratori cinesi affinché concentrino la loro lotta contro lo Stato del Pcc e il capitalismo cinese, cominciando a mettere in pratica il compito di prendere il potere nelle proprie mani. In questo modo, sulla base della lotta contro il nazionalismo taiwanese, e di conseguenza contro l’imperialismo statunitense, il proletariato taiwanese potrebbe superare la sfiducia e l’animosità che viene oggi fomentata tra esso e i lavoratori cinesi. Questo porterebbe a gettare le basi per una lotta per il socialismo veramente unitaria in tutta la regione.
I compiti dei marxisti cinesi
Per i marxisti cinesi si profilano compiti diversi rispetto a quelli dei marxisti a Taiwan. In Cina i nemici principali non sono il Pdp e Tsai Ing-wen, ma Xi Jinping, la burocrazia di Stato e la classe capitalista.
Con l’approfondirsi della crisi del capitalismo cinese, il Pcc sta intensificando la sua isteria nazionalista – in particolare verso Taiwan – per superare le contraddizioni di classe in aumento. Ma i marxisti cinesi, come quelli a Taiwan, devono avanzare lo slogan “Il nemico principale è in casa”.
Il primo compito dei marxisti cinesi consiste nello smascherare la natura reazionaria dello sciovinismo cinese. Devono opporsi a ogni rivendicazione, aggressione o ingerenza negli affari di Taiwan da parte del regime del Pcc. I marxisti cinesi devono mostrare questi tentativi per ciò che sono: parte delle ambizioni imperialiste della Cina e manovre rivolte a sviare l’attenzione degli operai cinesi addossando la colpa dei loro problemi a un nemico esterno.
Questo non per dare appoggio al nazionalismo taiwanese ma per mostrare ai lavoratori dell’isola che non sono i loro nemici e, così facendo, indebolire quello stesso nazionalismo taiwanese. Allo stesso modo, i marxisti taiwanesi, nella lotta contro la propria classe dominante e l’imperialismo Usa, dimostrerebbero ai lavoratori cinesi che non sono loro nemici.
Nel fomentare l’isteria nazionalista, Xi e Tsai e le rispettive classi dominanti si appoggiano gli uni agli altri. Xi sfrutta i rapporti di Tsai con gli Usa per incrementare il nazionalismo sul piano interno, mentre Tsai usa i discorsi di Xi e le manovre militari cinesi per raccogliere la nazione alle spalle sue e del Pdp. Il nostro compito è lottare contro tutto questo e smascherare l’inganno del nazionalismo da entrambe le parti.
Socialismo e internazionalismo
Nell’epoca iniziale del capitalismo lo sviluppo dello Stato-nazione diede un forte impulso allo sviluppo dell’industria, e pertanto della classe operaia. Oggi, tuttavia, lo Stato nazionale è divenuto un enorme ostacolo reazionario allo sviluppo.
Più si approfondisce la crisi del sistema, più aumentano le tensioni tra le nazioni. Ne consegue una crescente instabilità su tutto il globo. La guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti; la guerra in Ucraina e il conflitto fra la Russia e l’occidente; e la Brexit e la crisi dell’Unione europea sono tutte espressioni dello stesso processo.
L’apertura del mercato mondiale, cuore della crescita economica globale per tutto il periodo seguito alla Seconda guerra mondiale, viene rapidamente pregiudicata, con la conseguenza dell’aumento dell’inflazione, mentre si annuncia un periodo di rallentamento della crescita economica e crisi sempre più profonde.
È un circolo vizioso che si protrarrà per anni, se non decenni. Nessun paese sarà immune. L’Estremo oriente, una delle regioni più stabili del mondo negli scorsi decenni, non fa eccezione.
Mentre la scienza e la tecnologia hanno raggiunto vette prima inimmaginabili, che permetterebbero all’umanità di risolvere tutti i propri principali problemi con relativa facilità, miliardi di persone vengono costretti a subire sofferenze inenarrabili senza alcun motivo.
Il nostro compito in qualità di marxisti in tutta questa instabilità è di essere intransigenti nel sollevare la questione di classe in tutte le occasioni e lottare contro ogni sentore di nazionalismo reazionario. Questo è l’unico modo di elevare la classe lavoratrice ai suoi compiti storici e prepararla per l’unica cosa che può mostrarci una via d’uscita da questa palude: una rivoluzione socialista e l’instaurazione di una federazione socialista di popoli fratelli che possano decidere in collettività e armonia le proprie future strade.
No al nazionalismo taiwanese! Il nemico principale è a casa propria!
No all’imperialismo Usa!
No all’unificazione con la Cina su basi capitaliste!
Per una Taiwan democratica e socialista in una federazione socialista dell’Estremo oriente!