Squillano le trombe, la ripresa economica è partita. L’Istat annuncia che il fatturato dell’industria italiana è superiore al livello precedente alla pandemia, l’Unione europea approva il Recovery Plan, Draghi parla di “alba della ripresa”, si prepara la fine delle restrizioni sanitarie, si sparge ottimismo a piene mani.
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Il padronato fiuta i profitti e non sta più nella pelle. Vogliono mano libera, farla finita con restrizioni e cautele. La ripresa c’è ma non è certo quanto possa durare, e allora dove la domanda tira i lavoratori vanno spremuti subito il più possibile.
Non contenti di avere ottenuto lo sblocco dei licenziamenti, si lanciano così in una campagna indecente contro l’assurda pretesa, guardate un po’, di chi pensa che il lavoro vada retribuito in maniera dignitosa.
Succede così che un padrone, figlio di padroni, nipote e pronipote di padroni come Guido Barilla se ne esca attaccando i giovani troppo attaccati ai sussidi, esortandoli a “mettersi in gioco”, ossia ad andare a lavorare per quattro soldi:“Molte persone scoprono che stare a casa con il sussidio è più comodo rispetto a mettersi in gioco cercando lavori probabilmente anche poco remunerati. C’è un atteggiamento di rilassamento da parte di alcuni che io spero termini perché invece serve l’energia di tutti. Rivolgo un appello ai ragazzi: non sedetevi su facili situazioni, abbiate la forza di rinunciare ai sussidi facili e mettetevi in gioco.”
Non è certo l’uscita infelice di un gran signore poco avvezzo a curarsi del destino del popolino. La campagna contro il “sussidistan” l’aveva già lanciata il presidente di Confindustria Bonomi un anno fa. Messa tra parentesi nel periodo più drammatico della pandemia, quando era necessario blandire i lavoratori, chiamarli “essenziali” ed “eroi”, torna con prepotenza raddoppiata non appena la situazione pare migliorare.
Ristoratori, albergatori, imprenditori grandi e piccoli, è un coro rumoroso e arrogante: accettate quello che vi diamo perché di più non avrete.
Non poteva mancare il sostegno di Matteo Salvini, per il quale “non esistono gli imprenditori sfruttatori” e 600 euro al mese sono una paga congrua e accettabile.
Ripresa sì, ma sulla pelle della classe lavoratrice. La ripresa feroce degli omicidi bianchi ne è la misura più chiara. La morte di Luana D’Orazio ha fatto notizia sui media, ma nel primo quadrimestre dell’anno sono stati 306 i morti sul lavoro, in crescita del 9,3 per cento sull’anno scorso. Pochi giorni fa a Rovato (Brescia) un ragazzo di 16 anni in alternanza scuola-lavoro ha avuto un incidente gravissimo mentre lavorava su una piattaforma sopraelevata. Si tolgono le protezioni a un macchinario in fabbrica così come si toglie il freno a una funivia per non rinunciare a qualche giorno di incasso. Il profitto non guarda in faccia a nessuno.
Così si spiega l’omicidio di Adil Belakhdim, ucciso durante un picchetto davanti a uno dei tanti magazzini della logistica dove salario, diritti, contratti sono spesso una chimera. Quanto è accaduto davanti alla Lidl di Biandrate è il frutto legittimo di un preciso clima sociale, di una volontà di rivalsa del padronato. Non dobbiamo dimenticare che per i capitalisti di questo paese la pandemia non ha solo significato perdere fatturato e profitti (che peraltro in larga parte sono stati coperti dagli aiuti di Stato). Ha significato anche una grande paura, perché improvvisamente è emersa la vera natura dei rapporti di classe in questa società. La pandemia ha scritto a lettere cubitali “i lavoratori sono essenziali, i padroni no” e sia pure in modo solo in parte cosciente, questa verità è stata percepita da milioni di persone. È contro questo che oggi la borghesia vuole reagire, approfittando della tregua sul fronte sanitario e della ripresa economica.
Malorsignoristanno sbagliando i conti. È impossibile far dimenticare il recente passato e i loro tentativi di evitare il lockdown, di spingere la gente a lavorare a prescindere dai pericoli per la salute. Ma più ancora del passato, è la prospettiva futura che li condanna.
Non solo, infatti, è una ripresa costruita in gran parte sull’aumento dello sfruttamento, ma è anche appesa a politiche economiche e di spesa pubblica che avranno conseguenze profonde. Come si spiega in un altro articolo in questo giornale, tutti gli Stati, dall’Europa agli Usa fino al Giappone e alla Cina, stanno inondando i mercati di denaro nel tentativo di stimolare l’economia e di sostenere la domanda e i profitti. Ma se questo a breve termine può avere un effetto positivo, su scala più lunga avrà come conseguenza una ripresa dell’inflazione come da decenni non si vedeva, almeno nei paesi a capitalismo avanzato. Già in maggio negli Usa l’inflazione ha raggiunto il 5 per cento su base annua, ma siamo solo all’inizio. Inflazione significa che tutti i redditi fissi, dai salari alle pensioni, vengono erosi giorno per giorno dall’aumento dei prezzi.
Se caliamo questa prospettiva sui già bassi salari italiani, sul sottosalario diffuso, sull’occupazione intermittente, stiamo parlando di buttare un fiammifero in una polveriera. Già ora si calcolano 5,6 milioni di persone in povertà assoluta nel nostro paese.
Questa ripresa economica non risolve quindi nessun problema, scarica invece una pressione crescente sulla classe lavoratrice, che non potrà non reagire.
Nell’ultimo anno il gruppo dirigente della Cgil è precipitato in un immobilismo disastroso, aggrappandosi disperatamente prima al governo Conte e poi a Draghi, implorando tavoli di trattativa, producendo tonnellate di protocolli cartacei e cercando in ogni modo di esorcizzare qualsiasi prospettiva di scontro sociale. Hanno firmato in fretta e furia rinnovi contrattuali miserevoli pur di bloccare qualsiasi crescita della mobilitazione, sgolandosi ogni giorno in appelli alla ragionevolezza e alla collaborazione. Ma questa politica fallimentare è ormai al capolinea. Se col governo Conte bis i dirigenti sindacali potevano illudersi di avere un certo potere di condizionamento, con Draghi la musica è cambiata: belle parole a profusione, ma sulle decisioni importanti non c’è modo di incidere.
Dall’altra parte, si percepisce che la tensione si accumula fra i lavoratori, come dimostrano gli scioperi convocati in protesta per la morte di Adil. Sono decine le aziende dove le Rsu stanno convocando scioperi e assemblee, dalla Bonfiglioli di Bologna fino a Stellantis di Pomigliano, dall’Ups di Milano alla Tenaris di Dalmine solo per citarne alcune. La Fiom-Cgil ha sostenuto le iniziative, convocando anche due ore di sciopero regionale in Emilia-Romagna.
È uno sviluppo importante, che dimostra come l’apparato sindacale sente che se resta immobile il terreno sotto i piedi gli viene a mancare. Lo confermano le parole del segretario della Cgil su Repubblica (20 giugno): “La nostra è una Repubblica democratica – è scritto nella Costituzione – fondata sul lavoro. Ma ora domina lo sfruttamento del lavoro, la precarietà del lavoro, l’insicurezza del lavoro. Si è passati dalla tutela del lavoro al disprezzo del lavoro. Proviamo a mettere in fila tre recenti fatti di cronaca: l’orditoio manomesso su cui lavorava la povera Luana, i sistemi frenanti della funivia di Mottarone anch’essi manomessi, infine la morte di Adil. Sono legati dalla stessa logica: il tempo di vita e di lavoro viene piegato al mercato e al profitto e non alla centralità della persona.(…)
È in atto da anni, più di venti, una metamorfosi del rapporto tra capitale e lavoro. Fino ad ora ha prevalso la logica del mercato e del profitto e così il lavoro è stato progressivamente svalorizzato: salari bassi, tagli agli investimenti in ricerca e innovazione, scarsa formazione, produttività ferma. E non è accaduto per caso. Una sequenza di leggi ha portato al punto in cui ci troviamo: è stata rilegittimata l’intermediazione di manodopera, un tempo vietata; è stata legalizzata la catena infinita degli appalti con la logica del massimo ribasso, per garantire i guadagni delle aziende ma non i diritti e la dignità di chi lavora. La giungla in cui ci troviamo nasce da una serie di leggi sbagliate. A tutto ciò la Cgil si è opposta e ha avanzato proposte alternative. La pandemia ha accelerato tutto, accentuando le forme di diseguaglianze, tra ricchi e poveri, tra protetti e precari, tra uomini e donne, tra giovani e anziani, tra Nord e Sud.”
La descrizione di Landini è corretta, ma ciò che manca completamente è una risposta all’altezza dello scontro che si prepara. Gli appelli al governo, al parlamento, a salvare la democrazia in pericolo, lasciano il tempo che trovano.
Serve invece che il sindacato torni seriamente nelle fabbriche, per ascoltare i lavoratori e per elaborare una piattaforma di difesa e rilancio delle condizioni generali di tutta la classe lavoratrice.
Lotta alla precarietà, rilancio dei salari, difesa dei posti di lavoro a rischio, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, pensioni, scuola e sanità: siamo sotto attacco su tutti i fronti, la risposta deve essere una lotta generale di tutto il movimento operaio, fino allo sciopero generale.
Non si tratta di lanciare una mobilitazione rituale o improvvisata. Serve invece un percorso chiaro, coordinato, che serri le fila della classe lavoratrice e ne metta in campo tutta la forza potenziale.
Un anno fa abbiamo lottato per difendere la salute, con la parola d’ordine che “i lavoratori non sono carne da macello”. Oggi dobbiamo lottare per non diventare la carne da macello di una ripresa economica che è solo ripresa dei profitti, dello sfruttamento e delle ingiustizie.