La pandemia ha acuito e approfondito quella che era una crisi già in atto del capitalismo. Siamo ora di fronte alla crisi sociale, economica e politica più profonda da decenni. La certezza della ripresa non nega che le misure prese giocoforza dai capitalisti nell’ultimo periodo (cioè i massicci aumenti di spesa pubblica) si facciano ora sentire sotto forma dell’aumento dell’inflazione, con il costo della vita in aumento che provoca risentimento e instabilità in tutto il mondo.
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La gente è arrabbiata e questo sistema marcio è screditato a tutti i livelli. La lotta di classe e la radicalizzazione sono all’ordine del giorno. Pubblichiamo la trascrizione di un discorso tenuto nel febbraio 2022 alla direzione della Tendenza marxista internazionale, che delinea le principali prospettive della politica mondiale.
È proprio vero che viviamo in tempi interessanti. Viviamo in un mondo in preda a grandi sconvolgimenti. All’apparenza c’è una grande confusione. Le persone si guardano intorno e si domandano: dove finiremo? Con chiunque si parli si trova sempre una profonda preoccupazione per cosa ci aspetta. C’è chi pensa che siamo vicini alla fine del mondo. Ma la verità è che questa non è affatto la fine del mondo. Semmai è vero che ci stiamo avvicinando alla fine dell’attuale forma di società. Sarà una fine molto movimentata, protratta su un lungo periodo di tempo.
È un privilegio essere marxisti oggi, essere marxisti in tempi così interessanti. Tuttavia non basta dire che questi sono tempi interessanti. Possiamo affermare che stia arrivando il nostro momento. Questo è un periodo della storia in cui le idee per cui abbiamo lottato e difeso controcorrente nei decenni alle nostre spalle diventeranno le più logiche in assoluto. Ovunque è visibile l’impatto della crisi del capitalismo, a ogni livello della società, in tutti i paesi. Siamo fortunati ad avere questo meraviglioso strumento chiamato marxismo che ci fornisce la capacità di comprendere perché sta avvenendo tutto questo, e spiegarlo agli altri.
Come prima cosa dobbiamo dire che il sistema non è entrato in crisi a causa della pandemia. Prima di quest’ultima, nei nostri articoli, stavamo analizzando un sistema già avviatosi verso una grave crisi. Ciò che ha fatto la pandemia non è stato che accelerare, approfondire e acuire le contraddizioni fondamentali della società, gettando l’economia in un forte calo. Naturalmente, dopo ogni crisi c’è sempre una ripresa. Non esistono recessioni permanenti. Non è questo il punto però, perché ciò che dobbiamo valutare è la salute generale del sistema nel suo complesso, anche mentre vive una ripresa. Inevitabilmente, una volta che le ultime misure del lockdown verranno tolte, ci sarà una ripresa economica, in una certa misura. L’Italia è cresciuta del 6% l’anno scorso – numeri cinesi! Si sarebbe portati a pensare che l’Italia ha risolto tutti i suoi problemi. Semmai è però vero il contrario: è in una crisi profonda, nonostante la crescita.
Quello che va su prima o poi deve tornare giù, e viceversa, in termini economici, quando gli indicatori calano devono risalire. È normale è prevedibile. Ma cosa sta portando questa ripresa? A parte il fatto – lo dimostrano tutti i dati a disposizione – che c’è già un nuovo rallentamento, ovunque vediamo un nuovo elemento al quale le nuove generazioni non sono abituate che sta prendendo il volo, l’inflazione, insieme a un’inversione delle politiche economiche con l’aumento dei tassi d’interesse, e un’esplosione del debito. Il punto è che numerosi paesi, benché si siano tecnicamente ripresi, non sono ancora tornati ai loro livelli pre-crisi.
Negli ultimi 20 anni il debito globale è cresciuto al doppio della velocità del Pil mondiale. Ci troviamo ora con un debito globale al 335% del Pil mondiale. La situazione è tale che solo lo scorso anno sono stati pagati 11 migliaia di miliardi di dollari in interessi sul debito, l’equivalente di quattro o cinque volte il Pil di un paese come l’Italia. Ora, tutto questo avviene grazie alla disponibilità di crediti a bassissimo costo. In effetti, negli scorsi 20 anni circa il capitalismo ha cercato di guadagnare tempo. Il credito a basso costo favoriva i boom. Oggi l’epoca del credito a basso costo è prossima alla fine, e i capitalisti sono davanti a un enorme dilemma.
Tutte le previsioni della Banca mondiale e del Fmi indicano che, nel giro dei prossimi due o tre anni, nonostante la crescita prevista, il tasso di quest’ultima diminuirà di anno in anno. Quindi proprio nel momento in cui servono politiche di stimolo alla crescita, a causa dell’inflazione, viste le “soluzioni” adottate nel periodo precedente, i capitalisti dovranno invece seguire una politica che potrebbe rallentare ancora di più l’economia. La Cina, per esempio, secondo le stime dovrebbe crescere del 5%: una pessima notizia per il regime. Un rapporto della Banca mondiale sullo stato generale dell’economia, pubblicato a gennaio, dice che “si rischia un aumento delle tensioni sociali causate dall’aumento delle diseguaglianze prodotto dalla pandemia”.
“Ripresa”, a che prezzo?
Ora, con questa cosiddetta ripresa, molti paesi hanno visto un calo della disoccupazione. In Italia però, per esempio, la stragrande maggioranza dei lavori sono precari o a tempo determinato. Tuttavia il punto dirimente è questo: se i lavoratori trovano un’occupazione, se c’è un aumento dell’offerta di lavoro, come abbiamo visto negli Usa, non è necessariamente un male dal punto di vista della lotta di classe. Trotskij l’ha spiegato molto bene. Ciò avrà un impatto sulla disponibilità della classe operaia a entrare in lotta nel prossimo periodo. La pressione dell’inflazione sul potere d’acquisto dei salari sommata a una maggior fiducia dei lavoratori nelle proprie forze sono una ricetta per il conflitto di classe.
Come spiegato da Lenin, il capitalismo è sempre in grado di trovare una via d’uscita dalle crisi, ma la domanda è: a quale prezzo? Il sistema capitalista sta riemergendo dalla crisi della pandemia, ma con un massiccio aumento del debito, in particolare quello pubblico, cresciuto ovunque a dismisura, e con l’inflazione. Queste sono le conseguenze della loro “soluzione” alla crisi in cui si trovano.
Mentre stavo preparando questo intervento il tasso d’inflazione in Turchia era al 36%. Oggi nel Financial Times si dice che ha raggiunto quasi il 50%; in Russia, il 9%; in Spagna, il 7%. In Gran Bretagna ha superato il 5% ed è il livello più alto da 30 anni. Ma se guardiamo oltre i paesi avanzati, troviamo quasi il 16% in Nigeria, il 13% in Pakistan. E le previsioni vedono l’inflazione rimanere a questi livelli elevati almeno per i prossimi due anni. In realtà nessuno sa quanto durerà.
La classe dominante siede su una bomba a orologeria. Vediamo brevemente i fatti kazaki. L’anno si è aperto con un avvertimento lanciato dal Kazakhstan. In tutti i paesi si trovano interviste a famiglie operaie che spiegano quant’è difficile arrivare a fine mese. E non solo i più poveri, le fasce più basse, ma tutta la classe lavoratrice ne sta risentendo. In Gran Bretagna è stato calcolato che una famiglia media perderà 1.200 sterline di potere d’acquisto a causa dell’inflazione. Numeri simili si trovano in tutti i paesi.
C’è poi l’inflazione dei prezzi dei generi alimentari, particolarmente grave. Non dimentichiamo che un fattore fondamentale della primavera araba del 2011 fu proprio l’aumento massiccio dei prezzi dei generi alimentari. E ancora nel 2019 abbiamo visto un’ondata di proteste in molti paesi proprio su questa questione.
Per concludere sulla situazione economica generale, posso citare il direttore dell’Organizzazione internazionale del lavoro, Guy Ryder, il quale ha detto: “L’aumento delle diseguaglianze causato dalla crisi del COVID-19 minaccia di lasciare un’eredità di povertà e instabilità economica e sociale che risulterà devastante”. Ecco cosa ci aspetta!
È in questo contesto che dobbiamo inquadrare gli eventi in Kazakhstan (abbiamo diversi ottimi articoli sul tema, quindi non serve scendere nei dettagli.) La miccia che ha acceso il movimento è stato l’aumento del prezzo del gas e dell’energia, andato ad aggiungersi a un’inflazione al 9% e all’aumento del prezzo dei generi alimentari tra il 13 e il 18%.
I fattori che hanno provocato il movimento kazako esistono in ogni paese del mondo. Guardate cos’è accaduto! È partito tutto da una sola regione per poi allargarsi a tutto il paese e trasformarsi in un movimento imponente, con tanto di scontri di piazza con la polizia e l’esercito. È stato un movimento reale delle masse lavoratrici. Abbiamo visto la partecipazione degli operai del settore petrolifero e del gas, dei minatori, dei metalmeccanici. Gli operai del settore petrolifero chiedevano un aumento salariale del 100%. Sono emerse le rivendicazioni classiche della classe operaia. Nella regione di Mangystau c’è stato uno sciopero generale.
In Kazakhstan abbiamo visto la forza della classe lavoratrice, che è stata in grado di mandare il regime in crisi. Il movimento ha avuto un carattere semi-insurrezionale, con l’occupazione di aeroporti e stazioni di polizia. Ma è mancata una direzione e si vede come va a finire in questi casi. Il regime ha prima fatto qualche concessione, poi ha colpito duro. Per reprimere il movimento hanno pure chiamato in loro aiuto i russi. Ma i problemi che hanno generato la protesta non sono stati risolti. La situazione va presa ad esempio per evidenziare due punti importanti: anzitutto la forza della classe lavoratrice, ma anche le conseguenze della mancanza di una direzione. Gli analisti più seri della borghesia erano molto preoccupati da questi eventi perché capiscono quello che capiamo noi marxisti – ma dal punto di vista dei loro interessi di classe.
Lotta di classe e conflitti
La prospettiva non si riduce però soltanto a un’intensificazione della lotta di classe in tutto il mondo, ma riguarda anche i crescenti conflitti tra le diverse potenze capitaliste. È logico: ogni potenza capitalista, per risolvere la propria crisi, deve esportare i propri problemi. La tendenza verso un protezionismo sempre più accentuato significa che ogni classe capitalista nazionale sta cercando di proteggere i posti di lavoro nel proprio paese al prezzo dei posti di lavoro altrove, e soprattutto di difendere i propri mercati, conquistandone al contempo altri per le proprie esportazioni.
La situazione attuale spiega perché tutte le potenze stanno adottando politiche estere più aggressive. Questo le porta in conflitto fra loro in diversi punti del globo, come dimostra la crisi ucraina. La Nato, impegnata sin dal crollo dell’Unione sovietica ad accerchiare lentamente la storica sfera d’influenza della Russia, si è avvicinata sempre più ai confini russi. L’ingresso dell’Ucraina nella Nato significherebbe aprire un confine proprio sul fianco occidentale della Russia.
Tutto questo mentre la Russia ha riguadagnato terreno, ha ritrovato il suo equilibrio. Leggevo un rapporto che illustrava come negli scorsi anni l’apparato militare russo è stato massicciamente modernizzato ed è divenuto più efficiente. Putin sta mostrando i muscoli che ha costruito. Vuole respingere la Nato, e l’Ucraina è il teatro di questo tentativo. La propaganda in occidente raffigura la Nato come una forza impegnata a diffondere democrazia e diritti umani. I marxisti non si fanno ingannare dalla propaganda della borghesia, che non fa altro che scaricare le colpe sugli altri. Vista dal punto di vista della Russia, la Nato è una gigantesca alleanza che la minaccia proprio nel suo cortile di casa. “Di chi è la colpa” è una domanda stupida che non ci interessa.
La prospettiva più probabile è che Putin, che sa alzando la posta e sfida sempre più i limiti, sta facendo tutto quello che sta facendo per negoziare. Tuttavia non è del tutto escluso che possa lanciare un intervento breve e limitato. Non è l’esito più probabile, ma potrebbe accadere. Putin ha però altre carte nella manica. La Russia rifornisce l’Unione europea del 40% del suo gas. Ciò riveste una particolare importanza per la Germania, il che spiega anche perché quest’ultima non sia così entusiasta della politica estera statunitense in Europa.
Putin vede le divisioni in Europa. Boris Johnson, il quale a sua volta ha bisogno di qualcosa per sviare l’attenzione dai suoi problemi interni, è volato in Ucraina e ha fatto grandi dichiarazioni di sostegno nei confronti del governo, mentre il premier italiano Mario Draghi ha telefonato a Putin per avere rassicurazioni che le forniture di gas all’Italia non subiranno variazioni. Immagino che questa sia la differenza fra il cervello di un banchiere e quello di un buffone. A ogni modo, è in corso un conflitto reale. Ma le conseguenze di una guerra aperta sarebbero un disastro assoluto per l’economia mondiale. Ci sono tonnellate di articoli sulla stampa borghese seria, che i compagni possono leggere, sulle conseguenze economiche di una tale guerra.
Le dure sanzioni minacciate dagli americani avrebbero un enorme impatto sull’economia mondiale e si aggiungerebbero ai fattori dietro il suo rallentamento. La crisi ucraina è un riflesso della crisi globale del capitalismo: è un’indicazione delle crescenti tensioni tra le potenze; rivela le sempre più accentuate divisioni all’interno dell’Unione europea stessa; sottolinea la divergenza sempre più marcata fra Usa ed Europa; ed è un riflesso del indebolimento relativo dell’imperialismo Usa a livello globale. Ma è anche un’indicazione della crisi interna di Putin nella stessa Russia. I suoi indici di popolarità stanno crollando. L’inflazione è altissima e la povertà in aumento.
Pandemia infinita e polarizzazione
Non voglio passare troppo tempo sulla pandemia, pur trattandosi di un elemento importante in questa situazione. Molti paesi stanno togliendo le restrizioni, ma l’Oms ha diramato un avvertimento secondo cui la pandemia “non è nemmeno vicina alla fine”. In una sola settimana l’Omicron ha portato a 18 milioni di nuovi contagi in tutto il mondo. Adesso si spera che la variante, all’apparenza meno aggressiva, sarà un problema arginabile. Tuttavia è anche più contagiosa e ora c’è anche l’Omicron 2, più contagiosa ancora.
Potrebbe essere in effetti che il virus si stia trasformando per divenire via via endemico, una specie di nuova influenza, come sperano i più. Tuttavia è ancora presto per dirlo e nessuno può garantire che quello che il mondo ha dovuto passare negli ultimi due anni non possa ripetersi, date le condizioni del capitalismo.
Gli effetti del COVID, comunque, vanno oltre l’impatto immediato sulle vite delle persone. La pandemia ha messo sottosopra tutto il sistema, non solo in termini di dissesti economici. Essa ha smascherato il sistema agli occhi delle masse. Vasti settori delle masse non si fidano più dei governi e dell’establishment e delle loro azioni.
L’attuale crisi del governo britannico, per esempio, nasce direttamente dal comportamento degli alti papaveri durante il lockdown. Mentre tutti gli altri non potevano nemmeno far visita ai propri anziani a casa o negli ospedali, Boris faceva i festini a Downing Street. Solo che ovviamente a un certo punto succede che qualche elemento fra i Conservatori decide di filmare tutto e fa trapelare i filmati alla stampa, con il chiaro scopo di screditare Boris Johnson per dispute di fazione interne. Il governo sta facendo la figura di quello che, mentre diceva alla gente di stare in casa, se la spassava alla grande, senza nessun riguardo per le persone comuni. Ecco il messaggio che sta arrivando alle masse.
Ora, certamente c’è il problema di chi pagherà le conseguenze economiche della pandemia. Il debito pubblico aumenta vertiginosamente e qualcuno dovrà pur pagare. Quel qualcuno sarà la classe lavoratrice. Lo vediamo nella protesta degli infermieri, che dicono: “Durante la pandemia ci applaudivano, ma quando chiediamo aumenti salariali il governo ha da offrire solo briciole ai lavoratori della sanità”. Questo elemento continuerà a giocare un ruolo nel conflitto imminente.
Non possiamo ora parlare di tutti i paesi del mondo, ma possiamo dare uno sguardo ad alcuni per sottolineare i processi generali in atto. Negli Usa abbiamo visto in atto proprio quello che ho detto poco fa: alla pandemia è seguita la fortissima rivendicazione di aumenti salariali in vari settori. L’anno scorso nel settore industriale privato ci sono stati aumenti del 4%, i più alti da 20 anni. Il problema è che negli Usa l’inflazione è al 7%, non al 4. Il tasso d’inflazione è ai massimi storici degli ultimi 40 anni. È una ricetta per la lotta di classe. L’abbiamo visto nell’ondata di scioperi negli Usa dell’anno scorso.
E lo vediamo in un paese dopo l’altro. Qualcosa di simile ribolle in Gran Bretagna. Vale la pena di notare che negli Usa solo l’11% della forza-lavoro è sindacalizzata. Ho visto un articolo sul Financial Times che analizzava la situazione dei sindacati britannici. La conclusione era che gli iscritti ai sindacati sono circa la metà di quelli che erano negli anni ’70, quindi non avremo scioperi della stessa intensità di allora. Farebbero bene a ricordarsi che il maggio ’68 ebbe luogo in Francia quando gli iscritti ai sindacati erano pure meno. La lotta non dipende da quanti tesserati ha un sindacato. Dipende dalla rabbia della classe lavoratrice e dalla sua preparazione alla lotta. In America, secondo un sondaggio che ho visto, il 65% delle persone vede con favore i sindacati. È la cifra più alta dal 1965. I giovani sono ancora più radicali. Nella fascia d’età fra i 18 e i 29 anni, il 78% sostiene i sindacati negli Usa. Tutto questo mette in evidenza le dinamiche in corso all’interno della classe lavoratrice.
Vorrei chiudere sugli Usa con un commento interessante. Barbara Walter, professoressa all’università della California, ha scritto un libro su come scoppiano le guerre civili dove analizza le esperienze di Birmania, Irlanda del Nord, Ruanda, Sri Lanka, Siria e Jugoslavia, alla ricerca di elementi in comune. E la cosa interessante è che trova quegli stessi elementi negli Usa di oggi. Naturalmente non offre nessuna soluzione al problema. In verità, sta parlando dell’intensificazione della lotta di classe negli Usa.
La Cina è la seconda potenza alle spalle degli Usa. Il 5% di crescita previsto è un rallentamento significativo rispetto al passato. E sta portando gli analisti più seri a parlare di una crescente minaccia di instabilità interna in Cina. La preoccupazione sui problemi interni cinesi ha portato alla centralizzazione del potere nelle mani di Xi Jinping, cui si aggiunge una politica estera più aggressiva. La Cina si è scontrata con l’Australia, ha rivendicazioni sul Mar Cinese Meridionale, è in conflitto con il Giappone e con l’India per quanto riguarda l’Himalaya, minaccia continuamente Taiwan e ha assunto una posizione molto aggressiva su Hong Kong, che sta gradualmente assorbendo.
È proprio l’enorme sviluppo economico degli scorsi decenni che ha portato la Cina a un conflitto globale con gli Usa. Xi Jinping è preoccupato dalle questioni globali ma anche dai problemi interni. Il crescente divario fra ricchi e poveri in Cina è uno dei più estremi al mondo. Xi Jinping lo sa bene. Gli esiti a cui potrebbe portare la polarizzazione sociale in Cina lo preoccupano. Sotto i suoi occhi sta anche avvenendo una grave crisi finanziaria: lo vediamo nel caso Evergrande. L’industria immobiliare in Cina rappresenta il 30% del Pil. Evergrande è uno dei principali promotori immobiliari al mondo. E con il suo debito da 300 miliardi di dollari è una minaccia per l’economia cinese e quindi mondiale.
Citerò da un rapporto del Consiglio atlantico scritto in dicembre, che sulla Cina diceva: “Potrebbe trovarsi a che fare con una notevole agitazione sociale che minerebbe la presa del governo sul potere. Il modo in cui la Cina gestirà queste sfide molto ampie influenzerà anche il suo impatto sul mondo e deciderà se la sua economia sarà un motore o una zavorra per la crescita globale futura”.
Qui vediamo come la Cina, dalla locomotiva che era, è diventata l’ennesimo fattore che potrebbe trascinare l’economia mondiale verso il basso.
Noi e loro
Tornando alla Russia e ai problemi sul tavolo di Putin: la disoccupazione è in aumento. È ai massimi da 8 anni. I redditi reali stanno precipitando, l’inflazione è al 9%, e gli indici di popolarità di Putin non sono mai stati così bassi dal 2012. Come abbiamo visto, questo è un elemento importante per spiegare la politica estera russa. Pertanto sia la Russia sia la Cina, due potenze centrali, sono elementi che favoriscono una maggiore instabilità, anziché stabilità, su scala globale. Ed entrambe potrebbero contribuire a tirare il freno a mano della ripresa globale.
Se da una parte subisce le pressioni americane riguardo l’Ucraina, dall’altra la Russia è appoggiata in questo dalla Cina. Hanno un nemico comune: gli Usa. La Cina contende con loro il Pacifico e ha una posizione aggressiva nei confronti di Taiwan, il che la porta, su questa questione, ad avere interessi simili con la Russia.
In Europa, come abbiamo sempre detto, l’Italia è l’anello debole nell’Ue. È la terza economica dell’eurozona, dopo la Germania e la Francia. Quando sono stato in Italia, di recente, la battuta più in voga era “dobbiamo solo fare come ci dicono”, perché gli “europei” – ossia tedeschi e francesi – ci hanno dato miliardi di euro e quindi hanno il diritto di decidere le prossime mosse del nostro paese. Come parte del cosiddetto EU Recovery Plan, che sta iniettando miliardi di euro nell’economia dell’Ue, l’Italia otterrà quasi 200 miliardi di euro. Naturalmente l’ex governatore della Bce è il capo del governo italiano e il suo ruolo consiste nel garantire l’applicazione di queste politiche. Il problema è che c’è un divario sempre più vasto e gigantesco fra il mondo della politica e le condizioni di milioni di persone.
In Italia c’è un governo di unità nazionale. Ci sono tutti, a parte il partito di estrema destra Fratelli d’Italia. La farsa sulle elezioni del nuovo presidente della Repubblica è emblematica della situazione. I deputati e i senatori hanno passato una settimana intera ad astenersi. In realtà si è trattato di una enorme crisi politica perché ci sarebbe bisogno di un uomo autorevole, capace di tenere insieme la situazione durante l’applicazione programma dell’Ue per l’Italia. L’autorità di questi politici è stata tutt’altro che rafforzata da questi fatti.
Questo è un elemento comune a molti paesi: il sentore che “quelli lassù in alto” non ci rappresentano. La questione è: come governare un paese come l’Italia, applicare queste politiche e al tempo stesso evitare la lotta di classe? Durante gli eventi kazaki ho sentito commenti come “Loro sì che sanno come lottare!”. Osservazioni simili le avevo sentite durante il movimento dei gilet gialli in Francia: “I francesi, loro sì che sanno come si lotta!”. A far esplodere il Kazakistan è stata una situazione molto simile a quella che abbiamo in Italia. Quest’ultima sarà colpita molto duramente dall’aumento dei prezzi dell’energia. Non è un caso che Draghi abbia telefonato a Putin preoccupato più per le forniture di gas che per la situazione in Ucraina.
La Germania, secondo il Financial Times, lungi dall’essere la locomotiva economica dell’Europa, potrebbe diventarne la zavorra. La Germania sta vedendo una diminuzione delle spese familiari e la produzione industriale è ancora al di sotto dei livelli pre-crisi. La Cina è il secondo mercato per le esportazioni tedesche dopo gli Usa e un rallentamento cinese comporterebbe serie conseguenze per la Germania. A sua volta un rallentamento tedesco avrebbe gravi ricadute sul resto dell’Europa. È chiaro dunque come tutti i tasselli si stiano fondendo in una crisi generale.
Gli avvenimenti in Gran Bretagna evidenziano il medesimo processo in atto in tutti gli altri paesi. Abbiamo assistito al crollo economico più disastroso da 300 anni, aggravato dalla Brexit, con carenza di camionisti e badanti, e scarsità di generi alimentari nei supermercati. C’è anche il problema irrisolto dell’Irlanda del Nord. Un ministro nordirlandese ha proposto di sospendere i controlli sulle importazioni dei prodotti agricoli dal resto della Gran Bretagna, il che violerebbe il trattato siglato con l’Ue. In Gran Bretagna abbiamo un governo in crisi.
C’è una cosa che Boris Johnson sa fare molto bene: mentire in modo sfacciato davanti a milioni di persone. Non si ricorda nemmeno se ha partecipato a una festa che si è tenuta a casa sua. E queste stesse milioni di persone, in Gran Bretagna, traggono le loro conclusioni. C’è rabbia nell’aria e molti stanno pensando “ecco come questi si comportano mentre milioni di persone sono in guai seri”.
Boris Johnson ha i giorni contati, e non gliene restano molti. La tragedia è che il Partito laburista sta facendo davvero l’opposizione di sua maestà. Se un conservatore, dopo aver votato centinaia di misure prese dal governo Tory, fa il salto della quaglia e passa ai laburisti trovando Starmer ad accoglierlo a braccia aperte, abbiamo una cifra di quanto quest’ultimo abbia spinto il partito a destra.
Mentre ai piani alti succede tutto questo, dobbiamo guardare anche a cosa accade fra la classe operaia britannica. Il sindacato Unite ha una nuova segretaria generale: Sharon Graham. In un articolo pubblicato sul Tribune del 30 dicembre ha dichiarato: “dobbiamo costruire un potere popolare e operaio”. Quanto spesso capita di sentire un leader sindacale parlare di “potere popolare e operaio”? In quale altro paese si trova un leader sindacale che si è espresso in questo modo nell’ultimo periodo? Questa è un’espressione della rabbia dal basso, fra la classe lavoratrice. Questo sindacato è ora impegnato in più vertenze sindacali di qualsiasi altro momento nella sua storia. Graham ha anche aggiunto: “non abbiamo eroi a Westminster che verranno in nostro soccorso” – immagino intendesse che Corbyn non è più di casa da quelle parti – e poi: “dobbiamo fare da soli”.
Lavoratori alla riscossa
Vediamo che la classe operaia sta passando dal fronte politico a quello sindacale. Di recente gli operai britannici hanno tentato di esprimersi attraverso il Partito laburista e Corbyn. Ci sono stati mezzo milione di nuovi iscritti, molti dei quali se ne sono ormai andati. Ma non sono scomparsi! La rabbia e la radicalizzazione che aveva trovato espressione in Corbyn si ritrova ora sul fronte industriale.
Sul MoneyWeek, una rivista di finanza, in gennaio è uscito un articolo umoristico dal titolo “Chiedete un aumento di stipendio: lo fanno tutti!”. C’era l’immagine di una manifestazione di lavoratori in cui spiccava un cartello con le parole “Non possiamo permetterci di scioperare”, e sotto “Non possiamo permetterci di NON scioperare”. L’articolo era interamente dedicato delle iscrizioni ai sindacati e della combattività che sta crescendo sempre più. Questa combattività si sta esprimendo ora nel voto a favore degli scioperi che si stanno registrando in molti, moltissimi settori, il che a un certo punto porterà a un’ondata di scioperi in Gran Bretagna.
In un momento come questo sarebbe del tutto priva di senso una discussione per capire dove farà la sua comparsa la sinistra all’interno dei partiti di massa. Abbiamo visto Podemos, Syriza, Melenchon dare parziale espressione alla radicalizzazione della sinistra che coinvolgeva milioni di operai e di giovani. Ma dal momento che la prospettiva di tutti loro si fermava a un tentativo di riforma del sistema, applicando politiche compatibili con il capitalismo, tutti sono stati costretti al voltafaccia e ad abbandonare la loro precedente retorica combattiva. Ciò significa che nel periodo a venire vedremo la rabbia degli operai e dei giovani esprimersi tramite scioperi, manifestazioni, proteste di piazza e così via.
La borghesia, però, vorrebbe tornare alla normalità. Ma che tipo di normalità la attende? Una normalità fatta di inflazione, mentre dappertutto vengono alzati i tassi d’interesse, il che a sua volta porterà a un rallentamento della crescita. Esistono altri fattori su scala globale che potrebbero frenare ulteriormente la crescita economica, da un rallentamento cinese all’impatto di possibili sanzioni contro la Russia.
La crisi sempre più profonda dell’economia in ogni parte del mondo sta anche producendo una crisi di regime. È il caso di praticamente ogni paese. In Italia è emerso molto chiaramente durante la crisi parlamentare per l’elezione del presidente della Repubblica. Non sono riusciti ad arrivare a un accordo e hanno smascherato le istituzioni statali agli occhi delle masse. In Gran Bretagna la monarchia è in piena crisi: il principe Andrew è sotto processo, appena dopo la partenza del principe Harry per l’America dopo aver accusato il resto della famiglia reale di razzismo. Nella polizia britannica scoppia uno scandalo dopo l’altro. Negli Stati Uniti Trump ha infiammato i suoi sostenitori dicendo che assolverebbe i responsabili dell’attacco al Campidoglio a Washington, D.C. dell’anno scorso, il che fa risaltare ancor più la crisi in corso.
La sospensione delle restrizioni COVID sarà come togliere il coperchio da una pentola a pressione. La classe operaia non se ne starà a guardare e i giovani saranno alla sua testa. In Italia sono in movimento gli studenti medi, brutalmente manganellati dalla polizia a Roma e Torino, fatto che avrà un effetto radicalizzante sulle masse. Il movimento giovanile non è che un’anticipazione di un più vasto movimento della classe operaia.
Le nostre prospettive sono piene di ottimismo, compagni, perché noi siamo in grado di vedere ciò che si sta muovendo nelle profondità della società. Se si guarda al resto della sinistra, tra riformisti e quant’altro, si trovano solo dei gran pessimisti. A sentir loro non c’è via d’uscita, perché hanno completamente perso contatto con i processi reali che stanno avendo luogo. Noi non siamo pessimisti perché riusciamo a vedere cosa si sta preparando e siamo in grado di comprendere dove tutto questo ci sta portando: verso un movimento della classe operaia e dei giovani su scala globale come non lo vediamo da decenni.
Le nostre prospettive sono chiare. Ma prospettive chiare e corrette da sole non costruiranno la tendenza marxista. Le prospettive sono una guida per l’azione, una bussola, capace di aiutarci a comprendere dove ci stanno portando certi processi. Ma dobbiamo anche essere chiari riguardo i nostri compiti attuali.
Questa estrema radicalizzazione è tangibile ovunque. In Italia, per esempio, c’è un settore di giovani che si è schierato dalla parte della rivoluzione e che è alla ricerca di un’organizzazione rivoluzionaria. Con la nostra teoria possiamo conquistare i migliori di questi giovani, organizzarli e orientarli verso la classe lavoratrice nel suo complesso. Se lavoriamo nel modo corretto e costruiamo le nostre forze in modo adeguato, i tempi in cui viviamo diventeranno veramente interessanti. Dobbiamo infondere ogni compagno di un senso di urgenza e di una comprensione del ruolo che i marxisti possono svolgere nella storia se costruiamo le nostre forze, se ci faremo trovare preparati allo scoppio dei grandi avvenimenti.