La crisi in Ucraina ha creato la tempesta inflazionaria perfetta. La guerra, le sanzioni occidentali contro la Russia, la pandemia, il protezionismo e il cambiamento climatico stanno mandando in fumo decenni di disponibilità a buon mercato delle materie prime, in una crisi che non fa altro che acuirsi. Questa concatenazione senza precedenti di vari fattori sta preparando un disastro, come sintetizzato da una sobria analisi di Pascal Lamy, ex direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio:
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“In tutta franchezza, quando guardo a ciò che sta per avvenire, sono piuttosto terrorizzato, e mi occupo di questioni internazionali da, boh, 30-40 anni della mia vita. Credo di non aver mai visto un periodo in cui i rischi erano così alti come in questo accumulo di: impatto del Covid sull’economia mondiale, specialmente quella dei Paesi in via di sviluppo; crisi alimentare; crisi dei prezzi dell’energia; crisi del debito, che incombe su molti Paesi in via di sviluppo; l’impatto di questa sul sistema finanziario. Vedo un rischio sommarsi all’altro. E poi, certo, l’invasione dell’Ucraina è la tipica goccia che potrebbe far traboccare il vaso. Purtroppo sono molto più preoccupato adesso che in qualsiasi altro momento degli scorsi decenni.” (“Le Pen, patriots and the anti-globalist movement”, Financial Times)
L’industria alimentare in crisi
L’invasione russa dell’Ucraina ha causato un’enorme quantità di problemi per l’economia mondiale. In primo luogo, da Ucraina e Russia dipende una percentuale importante del rifornimento mondiale di derrate alimentari. Insieme i due paesi producono il 12% delle calorie commerciali al mondo, pur raccogliendo, insieme, appena il 2% della popolazione mondiale. Le loro esportazioni di grano, in particolare, sono di vitale importanza per alcuni Paesi del Medio Oriente, ma la crisi sta avendo un impatto sui prezzi in tutto il mondo.
La guerra sta avendo tremende ripercussioni sui raccolti ucraini. Gran parte del raccolto dell’anno scorso è ancora chiuso nei depositi, e quello di quest’anno sarà messo a rischio dalla guerra in vari modi: parti del Paese sono occupate dalla Russia e le infrastrutture non funzionano regolarmente, distrutte dalle bombe o usate dall’esercito. C’è anche scarsità di manodopera visto che molti uomini sono stati arruolati.
Nel frattempo la Russia ha vietato le esportazioni di cibo per mettere in sicurezza le proprie scorte. Tali esportazioni sono state ristrette anche dalle sanzioni occidentali.
Di conseguenza, i prezzi del grano sono aumentati di un terzo – un balzo significativo – e si prevedono ulteriori rincari di qualche punto percentuale prima della fine dell’anno. Ciò avrà conseguenze devastanti per chi ha il pane come principale fonte di calorie, ma ci sarà anche un effetto a catena su altri prodotti alimentari, con il passaggio al consumo di riso, patate, ecc.
Un altro elemento dell’equazione è il problema del cambiamento climatico. Per esempio, la recente ondata di calore in India ha duramente colpito la produzione di grano, il cui raccolto quest’anno, secondo previsioni, diminuirà del 5%. Questo costituisce un altro colpo al mercato mondiale del grano, che non può permettersi ulteriori shock.
I prezzi del cibo in generale nel mercato all’ingrosso sono saliti del 55% dal 2020, e del 17% dall’inizio dell’anno. L’impatto si sente soprattutto fra i poveri del mondo. L’Africa sub-sahariana, per esempio, importa l’85% del suo grano, e il cibo costituisce il 40% della spesa dei consumatori in quella regione. Nel tentativo di alleggerire la pressione, l’attuale direttore generale del Wto, Ngozi Okonjo-Iweala, si è recato in visita al presidente braziliano Jair Bolsonaro e lo ha implorato di aumentare la produzione di cibo. Ai giornalisti a Washington ha detto che “Mi preoccupa molto la crisi alimentare incombente e dei passi che dobbiamo compiere” (“Export bans on food push global prices higher”, New York Times, 2 maggio).
A peggiorare le cose, il prezzo dei fertilizzanti è raddoppiato rispetto all’anno scorso. La Russia era il più grande esportatore di fertilizzanti al mondo, e ora le esportazioni sono vietate. Per di più, il gas naturale è una componente chiave della produzione di fertilizzante, e i prezzi del gas, come è noto, sono schizzati alle stelle.
La guerra, però, sta solo amplificando problemi che già esistevano prima. I prezzi dell’urea sintetica sono aumentati del 50% fra marzo e ottobre dell’anno scorso, portando la Cina a introdurre delle barriere all’esportazione di fertilizzante. Questo per cercare di tenere i prezzi sul mercato cinese al di sotto di quelli sul mercato mondiale.
Come da copione, la combinazione dell’aumento dei costi dell’energia e dei fertilizzanti sta devastando la produzione alimentare nelle serre. I produttori non riescono a trarre profitto dalla vendita dei raccolti e chiudono la produzione per evitare di andare in perdita. Ciò, naturalmente, metterà ulteriore pressione sui mercati del cibo già in ginocchio.
Proteggere gli approvvigionamenti alimentari
Sotto pressione dalla crisi nell’industria alimentare, diversi Paesi hanno optato per proteggere i propri consumatori dall’aumento dei prezzi sul mercato mondiale.
La guerra ha tolto dal mercato le scorte russe e ucraine di olio alimentare, ma ha anche spinto il governo indonesiano a fare altrettanto per tenere bassi i prezzi interni. Tutto ciò ha reso molto difficile avere accesso al 40% del rifornimento mondiale di olio vegetale. I prezzi, di conseguenza, sono aumentati del 150%.
I problemi legati al raccolto in India hanno portato a speculazioni secondo cui il governo potrebbe decidere di limitare le esportazioni, cosa che l’esecutivo ha sinora negato. Gli operatori finanziari temono che, qualora questa prospettiva dovesse farsi più plausibile, essa creerebbe il panico nel mercato dei cereali (“Food protectionism fuels global inflation and hunger”, Financial Times).
Altri Paesi hanno preso misure per vietare l’esportazione di cereali; tutto ciò contribuisce all’incremento dei prezzi sul mercato mondiale. A essere messi in difficoltà saranno i produttori per il mercato interno, i quali si troveranno alle prese con un aumento di costi per il diesel ecc., ma non potranno esportare e quindi non potranno riequilibrare i bilanci approfittando dell’aumento dei prezzi dei loro prodotti sul mercato mondiale.
Sarà indebolito anche il sistema del commercio mondiale. Non potendo accedervi pienamente per sfamare le proprie popolazioni porterà gli Stati a introdurre dazi e altre barriere contro le esportazioni al fine di tenere in piedi i propri settori agricoli interni. Ciò comporterà inevitabilmente prodotti più costosi. Lo stesso vale per i commercianti, che dovranno considerare tutta una serie di rischi aggiuntivi prima di decidere dove andare a procacciarsi le scorte.
La crisi particolare del capitalismo britannico
La situazione è pessima ovunque, ma la Gran Bretagna si trova davanti all’inflazione peggiore di tutta l’Europa occidentale. Pur essendo un Paese con un’industria petrolifera e del gas importante, ha subito malamente i picchi dei prezzi dell’energia.
Nel 2019 il governo ha calmierato i prezzi dell’energia, ma l’impatto nei primi anni è stato limitato, perché i contratti di gran parte delle famiglie erano al di sotto del calmiere. Adesso, tuttavia, la cifra massima prevista dal calmiere è diventata il prezzo pagato pressoché da tutti. Ad aprile è pure aumentato del 54%, con un ulteriore incremento del 30% previsto per ottobre.
Con tante famiglie già in condizioni di povertà e che faticano ad arrivare a fine mese, Keith Anderson, amministratore delegato di Scottish Power, ha detto: “Con ottobre [la situazione] diventerà terrificante, davvero terrificante”. Il gigante francese dell’energia EDF dichiara che la spesa dei clienti più vulnerabili in Gran Bretagna passerà da 1 sterlina per ogni 12 di guadagno per l’energia a 1 sterlina per ogni 6 guadagnati quest’anno. La CBI, la Confindustria britannica ha affermato che “non bisogna tardare” a rimpinguare le tasche delle persone in difficoltà.
E le difficoltà non si limitano all’energia: la banca centrale prevede che l’inflazione toccherà il 10% prima della fine dell’anno, nonostante la caduta del tasso di crescita. Il governatore della Banca d’Inghilterra ha detto che sono “su un confine molto, molto sottile” fra l’incapacità di tenere a bada l’inflazione e il rischio di creare una profonda recessione causata dall’aumento dei tassi di interesse, nonché dall’erosione del potere d’acquisto dei consumatori per via dell’inflazione (“Bailey warns of risk of persistent inflation from strong UK labour market”, Financial Times).
Per la verità, Bailey ha previsto che l’inflazione nel Regno unito toccherà il 10% prima della fine dell’anno, ma ha anche aggiunto che la Banca d’Inghilterra è impotente, non può farci nulla.
L’impotenza delle banche centrali davanti alla stagflazione
Le pressioni inflazionarie stanno seriamente ostacolando la ripresa post-Covid. Durante la pandemia le banche centrali hanno pompato migliaia di miliardi di dollari nell’economia per tenerla a galla. Questo denaro fa ora da combustibile per l’attuale spirale inflazionaria. Nel tentativo di imbrigliare l’inflazione, le banche centrali sono costrette ad aumentare i tassi d’interesse e rimuovere il denaro messo in circolazione (“tapering”). Nel far questo, però, stanno versando acqua fredda sull’economia.
Si teme che non solo non riusciranno a fermare l’inflazione, ma faranno pure precipitare l’economia a crescita zero o addirittura in una nuova recessione. Di certo, è ciò a cui alludeva il governatore della Banca d’Inghilterra. È ciò che viene chiamato “stagflazione” (stagnazione e inflazione al tempo stesso).
L’aumento dei tassi d’interesse, sommato a quello del costo della vita, se non associati a un aumento dei salari, indeboliranno il potere d’acquisto della classe lavoratrice. Costituiranno un grande freno ai consumi.
Gli economisti più lungimiranti comprendono i pericoli insiti in queste condizioni. Così si esprime Victoria Greene di G Squared Private Wealth sul New York Times:
“Incombono davvero tanti rischi non quantificabili e dall’esito non scontato. […] L’economia statunitense vive e muore per il consumatore, e non appena questo consumatore comincerà a diminuire gli acquisti, credo che l’economia subirà duri colpi” (“Market plunge reflects fear of pain to come”, 2 maggio 2022).
Nel frattempo, Joe Hayes, un economista di S&P Global (l’agenzia di rating), sollevava lo stesso punto al Wall Street Journal:
“Visto il ritmo a cui sta galoppando l’inflazione, è difficile pensare che gli sforzi di ripresa post-pandemici potranno compensare l’impatto negativo dell’aumento dei prezzi” (“Global Growth Outlook Ebbs in Face of Ukraine War”).
L’avvertimento più netto è arrivato da un ex amministratore delegato di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, il quale ha detto alle multinazionali di prepararsi alla recessione. In un’intervista a Bloomberg ha affermato che c’è un “rischio molto, molto alto” di recessione, citando gli stimoli governativi, i problemi delle catene di approvvigionamento, i lockdown cinesi e la guerra in Ucraina fra le cause dietro gli enormi ostacoli che stanno impedendo alle banche centrali di tenere l’inflazione sotto controllo. Secondo Blankfein la strada per evitare la recessione è “strettissima” (“Ex-Goldman CEO says recession possibility is ‘very high risk factor’).
La verità è che le banche centrali sono fra l’incudine e il martello. Non possono permettere all’inflazione di crescere, ma nemmeno possono limitarla, perché comporterebbe una recessione. E persino una recessione potrebbe non bastare a riportare l’inflazione sotto controllo.
La crisi della logistica
Quel che è forse pure peggio dell’impatto della crisi sui prezzi al consumo è l’aumento dei prezzi ai livelli superiori della catena produttiva. Qui gli incrementi dei costi sono molto più decisi rispetto ai beni di consumo, e avranno inevitabilmente un effetto a catena su tutto il sistema.
Durante la pandemia ha avuto inizio una grave crisi della logistica, con aumenti vertiginosi dei costi delle spedizioni e del trasporto merci. Le nuove modalità di consumo, insieme all’anarchia del mercato, hanno creato giganteschi colli di bottiglia nelle forniture che hanno portato ad enormi aumenti nei prezzi dei trasporti. Questi ultimi si sono attenuati il mese scorso, ma i costi sottostanti hanno continuato ad aumentare.
Il prezzo del diesel in Europa, che è colpita in modo particolarmente duro, è aumentato di circa il 63% rispetto ai livelli pre-pandemici[https://www.tolls.eu/fuel-prices]. La causa è l’aumento del prezzo del petrolio, ma anche l’estrema dipendenza dell’Europa dalle esportazioni di diesel russo.
Inoltre, il costo di pneumatici e ricambi è spesso raddoppiato. C’è notevole scarsità di pallet. Circa il 25% delle scorte europee di legno tenero, usati per fare i pallet, è inaccessibile a causa della guerra e delle sanzioni. È inaccessibile pure il rifornimento annuale di 20 milioni di pallet dall’Ucraina e dalla Russia, triplicando il costo degli stessi, da 9 a 23 euro (“The Ukraine war is hurting Europe’s pallet supply, and Russia’s army may be feeling the squeeze too”, Euronews).
La guerra in Ucraina sta avendo un forte impatto sui trasporti, in molti modi diversi. Tutti i miglioramenti che abbiamo visto nei prezzi dei trasporti nello scorso mese circa potrebbero facilmente aumentare di nuovo, man mano che l’incremento dei costi per le aziende di logistica cominciano a ripercuotersi in tutto il sistema.
Costi delle materie prime
E i trasporti non sono l’unico settore dove l’industria sta arrancando. Stanno salendo i prezzi di tutte le materie prime adibite alla produzione. La Russia è una delle fonti più importanti di minerali, molti dei quali impiegati nella produzione moderna, e con la perdita di gran parte degli approvvigionamenti dalla Russia, i prezzi stanno aumentando.
L’amministratore delegato di Tesla, Elon Musk, se ne è lamentato ad una teleconferenza per la comunicazione dei dati trimestrali agli azionisti, svoltasi ad aprile: “Penso che i numeri ufficiali sottostimino la vera entità dell’inflazione”. Ha poi espresso la previsione che l’inflazione continuerà almeno per il resto dell’anno, aggiungendo che i fornitori stavano chiedendo aumenti del 20% o del 30% per i pezzi di di ricambio.
E non finisce con Tesla. I prezzi dei prodotti industriali in Germania sono aumentati del 30,9%, il tasso più alto dal 1949. Le industrie tedesche sono alle prese con un picco dei prezzi dell’energia dell’84%, con un 145% per i prezzi del gas naturale. Gli aumenti dei costi hanno portato il Fmi a ridurre le sue previsioni di crescita per l’economia tedesca di 1,7 punti percentuali.
La crisi in Cina
La Cina sta già vivendo un chiaro rallentamento a causa dei suoi lockdown anti-Covid, che si stima coinvolgano 300 milioni di persone. La produzione industriale è calata del 2,9% e le vendite al dettaglio dell’11% ad aprile. La produzione automobilistica è scesa del 41% e i nuovi cantieri edili del 44% (“China: worse”, FT). L’economia mondiale ne sentirà i riverberi.
La banca centrale e il governo stanno cercando di stimolare i consumi attraverso il credito, ma l’impatto di queste misure è stato scarso. La Cina è nel mezzo di una crisi immobiliare, a partire da Evergrande. Solo una settimana fa un’altra compagnia, Sunac, ha dichiarato default per debito. Le misure prese, simili a quelle messe in atto in Occidente due anni fa, saranno ora di poco impatto, e preparano una crisi ancora più grave in futuro.
Nel mese scorso buona parte della produzione manufatturiera cinese è stata intralciata dalle stringenti misure anti-Covid a Shanghai, il porto più grande al mondo. Questo ha ridotto i costi delle spedizioni, ma aumentato quelli per qualsiasi altra cosa.
Il rallentamento della produzione in Cina farà piazza pulita delle forniture di qualsiasi materia prima e bene di consumo, aggravando la pressione sui prezzi del mercato mondiale. Naturale che, a un certo punto, il lockdown verrà tolto, ma come abbiamo imparato negli ultimi due anni a ogni lockdown fanno seguito colli di bottiglia di tutti i tipi. Il capitalismo, per via della sua natura anarchica, è semplicemente incapace di pianificare questi eventi, e l’intervento dei governi è uno strumento molto blando per risolverli.
Una minaccia per il commercio mondiale
Con tutte queste pressioni diverse che si fanno sentire sui prezzi, le banche centrali non saranno in grado di contenere la situazione. Quel che è ancora più preoccupante è che la pandemia e le tensioni crescenti fra le potenze mondiali, di cui la guerra in Ucraina è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, stanno facendo fare grandi passi indietro alla globalizzazione.
Larry Fink, amministratore delegato del più grande gestore patrimoniale al mondo, BlackRock, in una recente lettera agli azionisti, li ha messi in guardia proprio su questo: “L’invasione russa dell’Ucraina ha messo fine alla globalizzazione che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni”.
Sin dagli anni ’70 l’inflazione è stata tenuta a bada in parte dalla globalizzazione, grazie all’abbattimento dei costi generato dalla crescente divisione internazionale del lavoro che ne è conseguita. Lenin e Trotskij hanno spiegato che sono due le barriere allo sviluppo dell’economia (cioè delle forze produttive) sotto il capitalismo: la proprietà privata e lo Stato-nazione. Quest’ultimo era stato parzialmente superato proprio dalla globalizzazione. Fabbriche di enormi dimensioni, come quelle costruite in Asia orientale, caratterizzate da un altissimo livello di produttività, hanno abbattuto i prezzi dei beni di consumo.
La globalizzazione ha fatto calare i prezzi dei macchinari e reso più profittevoli gli investimenti nella meccanizzazione e in altri strumenti per risparmiare sul costo del lavoro. Il Fmi ritiene che la diminuzione dei dazi e di altre barriere commerciali è stato responsabile per il 60% della riduzione dei costi dei macchinari rispetto ai prodotti di consumo.
Pertanto, anche se la produttività del lavoro non è cresciuta tanto quanto in passato, sarebbe andata ancora peggio senza l’espansione del commercio mondiale. La sua apertura, chiamata “globalizzazione” dagli analisti borghesi, è stata essenziale per mantenere la crescita dell’economia – e tenere a bada l’inflazione – negli scorsi decenni, ma ora è al tramonto.
La fine della globalizzazione
Con la globalizzazione che innesta la retromarcia, le aziende si rendono conto che le loro catene di rifornimento sono assai vulnerabili a quelli che chiamano “rischi geopolitici”, cioè i conflitti che vedono coinvolte le principali potenze imperialiste.
Vediamo così l’industria automobilistica tedesca chiudere alcune linee produttive in mancanza dei cablaggi prodotti in Ucraina: ne hanno fatto le spese Volkswagen, BMW e MAN, azienda produttrice di camion.
L’Ue e gli Usa sono alla disperata ricerca di fonti alternative di petrolio, diesel e gas naturali, ma ciò è molto difficile e comporterà combustibili molto più costosi nel periodo a venire. La classe dominante statunitense ha capito che alcuni componenti chiave vengono prodotti quasi esclusivamente in Cina e dintorni, e sta quindi intervenendo per ridurre la propria dipendenza da queste forniture. Ma questo processo di “decoupling” dai materiali prodotti in Cina non è né semplice né economico.
L’indispensabile litio
Mentre tutti cercano di passare alle auto elettriche, è stato sollevato un grande punto interrogativo che riguarda l’approvvigionamento dei componenti delle batterie, ossia la parte dei veicoli più difficile da produrre.
Al momento la Cina produce l’80% dell’idrossido di litio da batteria, che è una componente chiave di quest’ultima. Benché il litio venga spesso estratto altrove, la stragrande maggioranza della raffinazione è fatta in Cina.
La domanda che le aziende automobilistiche e altri si stanno ponendo è: e se gli Usa dovessero imporre sanzioni alla Cina simili a quelle in atto contro la Russia? Come farebbero tutti quei produttori che dipendono dalle batterie al litio?
Per rispondere a queste incertezze, le aziende occidentali stanno sviluppando la propria capacità di produzione di idrossido di litio. Una delle nuove raffinerie è in costruzione in Australia, nell’area mineraria di Kwinana, dove si estrae litio. Raffinare in Australia proteggerebbe la produzione di Kwinana dai rischi geopolitici.
Un operatore finanziario di Redpoint Investment Management ha fatto questo commento al FT:
“Il fatto che alcuni di questi materiali diventeranno così importati significa che serve diversificare le forniture. Non puoi rischiare che vengano da un posto solo.”
E ha continuato:
“Dovranno operare sotto la legge del governo australiano. [Pertanto] se si trova in Australia, ti liberi davvero del rischio geopolitico.”
Proprio questa settimana è stato annunciato il piano per la costruzione di un altro stabilimento nel Regno Unito, come complemento alla costruzione di nuove fabbriche di batterie in Europa.
Chi controlla i microchip?
Un altro esempio è la produzione dei semiconduttori, il 75% della quale avviene ora in Asia orientale, soprattutto Taiwan e Corea del Sud, ma sempre più anche Cina. La sola Taiwan produce il 90% dei microchip più avanzati.
Via via che rafforza il suo controllo sul mar Cinese meridionale, la Cina sta anche consolidando la stetta sulle più importanti rotte commerciali dei semiconduttori. Ogni sanzione significativa o guerra commerciale fra la Cina e gli Stati Uniti potrebbe interrompere la fornitura di semiconduttori, essenziali per tutti gli elettrodomestici, i dispositivi elettronici e i veicoli.
Ciò ha portato i governi occidentali a tentare di sviluppare le proprie industrie di microchip. Gli Usa l’anno scorso hanno approvato un “Chips Act”, e l’Ue sta cercando di emularli quest’anno. Come recentemente dichiarato dall’amministratore delegato di Intel Pat Gelsinger: “Cerchiamo di ricostruire la nostra intera catena di approvvigionamento in terra statunitense” (Cpsan archive)
Ai suoi propositi ha fatto eco il presidente Usa Joe Biden, il quale in un discorso del 21 gennaio ha affermato: “Poter dire Made in Ohio, Made in America, cose che ci eravamo abituati ad avere sempre sulla bocca, 25-30 anni fa. Ecco la posta in gioco” (“Remarks by President Biden On Increasing the Supply of Semiconductors And Rebuilding Our Supply Chains”).
Questo è protezionismo, puro e semplice, e porterà scompiglio sui mercati mondiali. Certo, alcuni di questi settori sono comunque in situazioni di scarsità, ma innalzando barriere e promettendo sussidi alle aziende nazionali, i governi e le aziende stanno alzando i costi di produzione.
Sul lungo periodo, rimodellare le catene di approvvigionamento porterà inevitabilmente a prezzi più alti. È una delle conseguenze della guerra commerciale con la Cina iniziata sotto Trump e che continua tuttora, amplificata però prima dalla pandemia e adesso dalla guerra ucraina e dalle conseguenti sanzioni.
Allontanando le loro catene di approvvigionamento dalla Russia e dalla Cina, le aziende le stanno rendendo più costose. E tuttavia, nel mezzo di relazioni internazionali sempre più convulse, hanno ben poca scelta.
Il costo della guerra
In tutto questo, la classe dominante sta solennemente dicendo ai lavoratori che è nostro dovere fare la cosa giusta e mantenere le sanzioni contro la Russia. Sia Biden sia il ministro degli Esteri britannico Truss hanno insinuato che sì, un prezzo si dovrà pagare, ma ne vale la pena. Ovviamente, non saranno loro a pagarlo.
Ai lavoratori verrà prima o poi chiesto di pagare il conto delle decine di miliardi di dollari di armi che stanno riversando sull’Ucraina. Verrà chiesto loro di pagare per i vertiginosi aumenti della spesa militare interna. Il pasto non è mai gratis, come gli osservatori capitalisti non si stancano di ripetere.
Ma non è tutto. La gigantesca espansione della spesa militare non farà che peggiorare l’inflazione. Anziché usare queste risorse per migliorare l’istruzione o investire in nuovi macchinari, trasporti pubblici migliori o persino nuove strade, il governo metterà ancora più pressione sui mercati delle materie prime, già sotto stress, per produrre armi costosissime . Nel migliore dei casi queste armi saranno solo costosi pezzi di ferraglia, nel peggiore saranno usate per massacrare operai e contadini e distruggere fabbriche e fattorie. Lungi dal risolvere i problemi dell’economia, peggioreranno ulteriormente le cose.
In uno straordinario articolo sul FT, Martin Sandbu delinea i pensieri della classe dominante, ma ha il buon senso di non farlo a voce troppo alta. Non nasconde che le persone non riusciranno a comprare cibo sano per i figli, a pagare le bollette, e che potremmo dover razionare alcuni beni essenziali, e suggerisce che i politici dovrebbero spiegare le difficoltà in arrivo e il fatto che dipende dalla guerra (fra le altre cose). Infine dice che è il “prezzo della libertà… pagato prima di tutto dagli ucraini, ma anche da tanti di voi” (“Western leaders must prepare public for a war economy”).
Con dichiarazioni così solenni, molti lavoratori si chiederanno se qualcuno si prenderà la briga di chiedergli come la pensano. Si può davvero sacrificare la salute dei loro figli sull’altare delle ambizioni imperialiste della Nato? Ancora una volta questi politici e opinionisti ci stanno dicendo che “siamo sulla stessa barca” e che “chi può deve dare di più”, ma in realtà il peso non è affatto distribuito equamente. È chiarissimo che il prezzo degli scontri di potere imperialiste viene pagato dai lavoratori e dai poveri, non da altri, e che tale conto si fa di giorno in giorno più salato.
La nuova normalità
“Il presidente Jay Powell ha insistito sull’importanza di un ‘atterraggio morbido’. Patrick Harker della Philadelphia Fed invita cautela proponendo alla Fed di non ‘mettere nei guai l’economia’ con un atteggiamento ‘troppo aggressivo’ sull’inflazione. Mary Daly, presidente della Fed di San Francisco, ha detto che la Fed deve fare in modo che l’inflazione scenda al 2%, entro cinque anni, lasciando intendere di essere soddisfatta se resterà al di sopra dell’obiettivo della banca centrale per un lustro!” (“The Fed has changed its message, but not the way you think”, FT Alphaville)
La borghesia è davvero spaventata dalla prospettiva di un’inflazione che non riesce a riportare sotto controllo. Le previsioni ora non riguardano più un rapido ritorno dell’inflazione al 2% o vicino a quel livello, ma vedono un’inflazione ancora più alta per anni, se non decenni.
Ciò ha serie implicazioni per la lotta di classe. Un’inflazione del 5-10% si mangerà presto i salari e comprimerà i redditi reali. Sarà un rapido trasferimento di denaro dai lavoratori, che avranno meno in stipendi, alle aziende, che imporranno prezzi più alti.
Non tutte le aziende ne trarranno vantaggio. Saranno soprattutto i grandi monopoli. Sono in grado di controllare i prezzi dai fornitori e possono imporre i prezzi per i consumatori senza rischiare che altre aziende costituiscano un pericolo. A perdere sarà la classe lavoratrice, se non lotterà per difendere il potere d’acquisto dei propri salari. L’inflazione è pertanto una ricetta bell’e pronta per la lotta di classe.
È sintomatico del periodo che ci aspetta che la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, abbia mandato un’e-mail agli impiegati della Bce per contestare l’agganciamento degli aumenti di stipendio all’inflazione (cioè la scala mobile). A suo dire “l’indicizzazione degli stipendi all’inflazione non è desiderabile né rientra nei piani”. A quanto pare il sindacato di rappresentanza di questi lavoratori aveva chiesto proprio questa indicizzazione (Lagarde Spurns ECB Staff Plea for Pay Rises Linked to Prices).
Lagarde sa che è una questione esplosiva. Non le interessa affatto dare l’esempio, perché rivendicazioni come queste sono parte integrante della situazione. A che serve accettare un aumento dei salari del 3, 4 o 5% se l’inflazione si rivela essere dell’8%? I lavoratori dovranno stare sempre all’erta, pena assistere alla scomparsa del potere d’acquisto dei propri salari.
Queste pressioni inflazionistiche porteranno giocoforza a una risposta, non solo dai lavoratori dei Paesi avanzati, ma anche dai miliardi di poveri nelle ex colonie, che possono a malapena permettersi il cibo. I movimenti in Sri Lanka e Kazakistan sono stati scatenati proprio dagli aumenti drastici del carovita. Non saranno i soli Paesi dove assisteremo a simili sviluppi.
L’inflazione persistente è un segno che il sistema capitalista è in crisi nera, incapace di trovare un equilibrio. Ora numerosi Paesi sono davanti alla prospettiva tutt’altro che rosea di un’alta inflazione in aggiunta alla recessione. Gli imperialisti occidentali, così entusiasti di dissanguare la Russia in Ucraina, alla fine si pentiranno delle loro azioni. La continuazione della guerra sta portando la situazione dalla padella alla brace. L’inflazione sarà la talpa che scava sotto i sistemi politici già traballanti di tutto il mondo.
19 maggio 2022