Nel luglio 2021 il Partito comunista cinese (Pcc) celebrava il 90° anniversario della sua fondazione con un bombardamento di propaganda autocelebrativa rispetto a come il governo del partito abbia condotto a una Cina prospera, felice e sicura di sé. Eppure, a un anno di distanza, il malcontento fra le masse cinesi nei confronti del regime ha raggiunto livelli mai visti prima, mentre chi si trova al vertice della contorta burocrazia del partito-stato sta palesando chiare divergenze su come procedere nel futuro. Cosa rivela tutto questo e che importanza riveste per i marxisti rivoluzionari?
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Una convocazione ampia e urgente
A tradire l’attuale crisi della burocrazia cinese è il comportamento ben poco convenzionale tenuto dalla burocrazia stessa. La “Teleconferenza nazionale sulla stabilizzazione dell’economia”, diretta dal primo ministro Li Keqiang, può essere considerata lo sviluppo più inconsueto. Questa enorme teleconferenza ha raccolto dirigenti dal vertice del governo centrale fino ai burocrati di livello comunale. La natura della riunione è stata caratterizzata dal Global Times, un media di Stato, come “senza precedenti” ed è stata colloquialmente definita “conferenza dei diecimila quadri” (十万人大会).
Per di più, il primo ministro Li Keqiang ha usato un tono insolitamente schietto per un burocrate del Pcc nell’illustrare le prospettive economiche che si pongono dinnanzi alla seconda economia mondiale:
“Abbiamo superato lo shock improvviso del 2020, ma adesso ci sono compagni secondo i quali la situazione attuale, per certi versi e su un certo livello, potrebbe essere persino peggiore di quella del 2020. Ciò può essere vero per alcuni aspetti di determinati settori. Ma in generale abbiamo accumulato due anni e mezzo di esperienza. Dobbiamo avere fiducia. Nonostante le avversità che ci hanno colpito all’improvviso, siamo stati i soli al mondo ad ottenere una crescita economica dal segno positivo.
“Adesso ci troviamo nuovamente a dover superare le sfide davanti a noi realizzando una crescita positiva e riducendo la disoccupazione nel corso del secondo trimestre. Ora non vi starò a parlare di politiche fiscali. Il Governo centrale troverà una soluzione. Voi mettete in regola le regioni. Una volta che avremo raggiunto questi due obiettivi, potremo lavorare per completare i compiti di quest’anno per lo sviluppo sociale. Una delle basi [che consentiranno questo successo] è il dispiegamento decisivo di misure tempestive. Ciascuno di voi deve [pertanto] riuscire a comprendere perché oggi teniamo questa conferenza.”
La conferenza di per sé non ha svelato alcuna novità, avendo piuttosto l’obiettivo di spingere i governi regionali a una rapida applicazione della politica di stabilizzazione in 33 punti diramata dal governo centrale a maggio. Tale politica impone ai governi centrale e locali di mettere in pratica misure keynesiane come riduzioni delle tasse, spese in disavanzo, emissione di titoli di debito e altre azioni per stimolare i consumi e gli investimenti.
Come ha osservato Xiong Yuan, analista di Guosheng Securities, sul Lianhe Zaobao di Singapore, la conferenza aveva lo scopo di stimolare “l’implementazione delle misure e il rafforzamento della supervisione” sulle autorità regionali, non solo per via della situazione difficile, ma anche perché “negli ultimi mesi ci sono state molte decisioni politiche che, pur essendo state diramate, non hanno visto applicazione sul campo”. Se è vero che c’è sempre stato un divario fra i diktat del Centro e la loro applicazione a livello regionale, le ultime misure di lockdown duro contro i focolai della variante Omicron del COVID-19 hanno fortemente ridotto questo divario. Shanghai è l’esempio più lampante. In quella città lo scontro fra le misure stabilite dalle autorità locali e gli ordini che venivano dal governo centrale hanno prodotto azioni frettolose ed erratiche, caos economico e malcontento diffuso.
Ora, a fronte delle ricadute economiche delle serrate, i vertici di Pechino hanno impartito ai funzionari fino al livello di contea l’ordine di allinearsi, per evitare di rischiare misure contraddittorie simili che potrebbero destabilizzare ulteriormente la situazione.
Ma la radice del caos economico non sono le contraddizioni nell’applicazione delle politiche da parte dello Stato a qualsiasi livello. Al contrario, questo caos è radicato nella crisi organica del capitalismo cinese e mondiale. Nessuna dose di “comandismo”, che sta raggiungendo nuovi picchi sotto Xi Jinping, riuscirà a risolvere lo sviluppo profondamente diseguale e combinato fra le regioni – e, naturalmente, la crescente disparità fra le classi.
La richiesta di misure keynesiane da parte del Centro metterà province pesantemente indebitate, come il Qinghai, lo Heilongjiang, il Ningxia e la Mongolia Interna – i cui differenziali di spesa e reddito superavano il 300% nel 2020, e tutte interessate da tentativi di ridurre il debito– fra l’incudine e il martello. Giurisdizioni più ricche quali il Guangdong, il Jiangsu, il Zhejiang e Shanghai saranno a loro volta appesantite economicamente dallo sforzo del Centro di andare in aiuto delle regioni più povere, mentre dovranno anche puntellare i propri problemi specifici.
Questi problemi esprimono una realtà già esistente nel capitalismo cinese. La distruzione dell’economia pianificata ha impoverito numerose province, concentrando le ricchezze e le risorse nelle poche località dove la classe dei capitalisti concentra i suoi investimenti per il profitto e lo sfruttamento. Questo disequilibrio, insieme alle ondate di COVID-19 e ai lockdown, potrebbe gettare l’intero regime del Pcc in una grave instabilità sociale. La sola cosa che questo regime basato su un’economia di mercato può fare è esigere che i propri subordinati effettuino spese in deficit, di stampo keynesiano. Ma l’esito finale non può che essere la spinta di diverse province sul baratro di una specie di catastrofe fiscale simile a quella rischiata, all’inizio di quest’anno, dalla città di Hegang (Heilongjiang), dove il governo locale ha dovuto congelare le assunzioni e chiedere la restituzione dei bonus corrisposti agli impiegati governativi.
Ma il conflitto non vede contrapposti solo il Centro e le regioni. Anche ai massimi vertici del partito stanno cominciando a palesarsi differenze davanti al mondo intero.
Xi e Li: interessi contrapposti
Dal XIX Congresso del Pcc nel 2017, Xi Jinping si è consolidato come il leader supremo indiscusso del Paese, con un grado di potere che può paragonarso storicamente solo a Mao. Nel corso degli anni Xi ha via via eliminato i suoi rivali e capovolto molte dei dispositivi stabiliti da Deng Xiaoping a garanzia della direzione collettiva, per esempio eliminando i limiti ai mandati presidenziali, nella malcelata ambizione di governare a vita. Il XX Congresso del Partito quest’anno sarà una conferma formale del regno di Xi, se questi riuscirà a farsi “rieleggere” segretario generale, e poi presidente della Repubblica, per un inedito terzo mandato. In questo periodo Xi non ha trovato nessuno sfidante credibile, e sembra invece avere ottenuto l’obbedienza totale di tutta la burocrazia a ogni suo diktat. Almeno sinora.
Mentre facevano sentirsi le prime, gravi conseguenze economiche del lockdown caotico di Shanghai, varie parti della burocrazia hanno cominciato, a bassa voce, a mettere in discussione l’efficacia della rigida politica cinese di “zero COVID”. È vero che le misure severe prese dal regime nella prima fase hanno evitato le ondate e le morti su vasta scala viste nel resto del mondo, ma mentre quest’ultimo passava alla “convivenza con il COVID”, permettendo al virus di aggirarsi liberamente tra la popolazione globale, la strategia “zero COVID”, che prevede rapidi lockdown e tamponi molecolari quotidiani per milioni di persone, è diventata non solo infruttuosa, ma anche insostenibile per la seconda economia mondiale.
Tuttavia anche solo attenuare la politica di “zero COVID” sarebbe un duro colpo per il prestigio del regime fra le masse cinesi, in quanto danneggerebbe quanto il Pcc ha sostenuto fin qui, e cioè che il successo cinese nel contenimento del virus è solamente frutto della “superiorità” del “socialismo con caratteristiche cinesi”, e soprattutto della direzione di Xi Jinping. Xi stesso lo ha dichiarato inaccettabile alla riunione del Comitato permanente dell’Ufficio politico del 5 maggio. Secondo il resoconto della riunione apparso sul Quotidiano del popolo, Xi ha dichiarato:
“Le misure di contrasto alla pandemia stabilite dal Comitato centrale del partito devono essere comprese fino in fondo, completamente e in tutte le loro sfaccettature. Occorre superare tenacemente qualsiasi insufficienza nella comprensione, preparazione e applicazione [delle misure]. È necessario sconfiggere tutti gli atteggiamenti di inosservanza, indifferenza e autocompiacimento [rispetto alla linea]. A mente lucida e conseguente, perseverando sulla linea generale dello ‘zero COVID dinamico’, [dobbiamo] condurre una lotta implacabile contro tutte le distorsioni, gli scetticismi e i rifiuti delle misure di contrasto alla pandemia prese dal nostro Paese.” (Corsivo nostro)
Con queste parole Xi Jinping ha chiarito che le misure di contrasto alla pandemia devono essere mantenute a qualsiasi costo, compreso quello economico, benché siano pesanti.
Ma questa dichiarazione è stata contraddetta in un secondo momento dalla convocazione, da parte di Li Keqiang, della “Conferenza dei diecimila quadri”, dove invece è stato messo l’accento sull’esigenza di mantenere la crescita economica, il che implica la necessità di alleggerire le misure di “zero Covid”.
In linea di massima, questa divergenza è tra i due pilasri su cui il PCC ha mantenuto la sua dittatura capitalista fino a questo momento: da un lato, deve garantire una crescita economica continua per le masse; dall’altro, deve mantenere la fiducia in un partito-stato altamente centralizzato. In passato, queste due cose andavano di pari passo. Ma con l’improvvisa comparsa del virus, le due gambe hanno iniziato a procedere in direzioni diverse.
È naturale che Xi penda a favore del mantenimento del prestigio dello Stato a tutti i costi: è il volto pubblico di tutta la burocrazia del partito-stato, e pertanto subirebbe la rabbia che le masse potrebbero provare se un alleggerimento delle misure portasse a uno scoppio dell’epidemia (ed a conseguenze come quelle viste in Occidente). È plausibile, dal momento che i vaccini cinesi si sono dimostrati meno efficaci rispetto a quelli occidentali, specie contro la variante Omicron. Un simile esito potrebbe seriamente minacciare la corsa di Xi Jinping verso l’inedito terzo mandato di leadership suprema.
La contraddizione fra queste due esigenze ha portato, finora, a politiche incoerenti. In certi momenti abbiamo visto lockdown imposti con grande rapidità, in altri chiusure più leggere, tutto questo mentre alle masse continuano ad arrivare messaggi contrastanti riguardo la fine degli stessi. Non ci sono segnali o piani che chiariscano come il governo intenda, prima o poi, gestire il fatto che il COVID-19 fa ormai parte della vita quotidiana della maggior parte del mondo. Questa assenza di orientamento, rispetto alla risolutezza con cui sia Xi che Li tentano di tutelare i rispettivi interessi, sta ora alimentando le fiamme del malcontento dal basso.
Materiale infiammabile
Anche prima dell’instabilità causata dalle nuove ondate, la Cina era un Paese attraversato da incertezze e scontento. La potenziale bomba economica sulla crisi di Evergrande, per dirne una, rimane insoluta, mentre il mercato immobiliare sembra sempre più vicino al limite, con un’altra azienda, Sunac, lacerata da una crisi del debito.
Vari incidenti sociali, come il caso della madre di otto figli trovata in catene a Xuzhou, o più recentemente l’indignazione per la violenza contro le donne a Tangshan e le minimizzazioni della polizia, hanno immediatamente provocato reazioni furiose da parte del pubblico, specie su internet. Negli ultimi tempi si sono fatti frequenti i casi di indignazione contro le ingiustizie più grottesche. Si tratta di segnali per cui fra le masse sta crescendo la sensazione che ci sia qualcosa di profondamente marcio nella società attuale.
In queste condizioni, la pressione e l’incertezza aggiuntive sulle misure di lockdown sono gocce che potrebbero far traboccare il vaso. In certi casi ciò ha portato a manifestazioni fisiche, come i piccoli tumulti a Shanghai, o i raduni spontanei degli studenti dell’Università di Pechino contro la brutalità dei lockdown. Fra gli studenti dell’Università di Tianjin è anche risuonato lo slogan: “Abbasso il burocratismo!”.
Quanto esposto sopra non è altro che l’espressione della profonda necessità di cambiamento in Cina. Più precisamente, della necessità di sbarazzarsi del capitalismo attraverso un’autentica rivoluzione socialista. Il vano sogno di un “socialismo di mercato” covato dal Pcc si sta trasformando in un incubo per le masse. Nessuna dose di stimoli economici o misure burocratiche potranno liberarsi delle contraddizioni organiche del sistema capitalista. Prima o poi le masse porteranno le proprie sofferenze dalle tastiere alle piazze: gli serviranno allora le idee del vero marxismo rivoluzionario per prevalere sulla classe dominante che le opprime.