Il 10 novembre alle 4.50 del pomeriggio, il presidente boliviano Evo Morales ha annunciato le sue dimissioni. È stato il culmine di un colpo di stato che si stava preparando da tempo. Un ammutinamento della polizia, i tiratori scelti che sparano contro i minatori, un rapporto dell’Osa (Organizzazione degli stati americani) che mette in dubbio la validità delle elezioni e infine l’esercito che “suggerisce” a Evo che dovrebbe dimettersi sono solo gli atti finali nel fine settimana. Ci siamo opposti a questo colpo di stato sin dall’inizio, sottolineando allo stesso tempo come ne siano state poste in precedenza le premesse.
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La sequenza di eventi è iniziata con l’ammutinamento della polizia venerdì 8 novembre. A partire dalla UTOP (polizia antisommossa), di Cochabamba sabato 9 novembre si è diffuso a otto dei nove dipartimenti del paese. Le forze di polizia si sono ammutinate, si sono rifiutate di continuare a pattugliare le strade e si sono chiuse nelle loro caserme. Il comandante nazionale della polizia ha cercato di minimizzare la situazione e ha negato che fosse in atto un ammutinamento. La polizia era semplicemente “rimasta nelle proprie caserme”, ha detto. Poco dopo, l’esercito ha dichiarato che “non sarebbero usciti per le strade”. Non avevano ancora chiesto a Evo Morales di dimettersi, ma chiaramente non erano nemmeno disposti a difenderlo. Il governo aveva perso il controllo delle forze statali di repressione.
In questa situazione, i minatori di Huanuni che avevano viaggiato nella capitale per opporsi al colpo di stato hanno deciso di tornare indietro. Ad una carovana, che stava marciando da Potosí verso la capitale in opposizione a Evo Morales, è stata tesa un’imboscata a Vila Vila. In reazione, 2.500 minatori delle cooperative di Potosí hanno deciso di appoggiare la carovana e rimuovere il blocco. A loro volta, sono stati attaccati a Challapata da tiratori scelti, che hanno ferito tre minatori. Questi incidenti hanno provocato una grande indignazione a Potosí. Il sindacato dei minatori dell’enorme miniera di San Cristobal ha fatto circolare una dichiarazione in cui si chiedeva a tutti i minatori fuori servizio di andare a sostenere coloro che erano sotto attacco. Il sindacato dipartimentale (regionale) dei minatori ha adottato la stessa posizione.
Quindi, alle 2 del mattino di domenica 10 novembre, l’Organizzazione degli stati americani ha emesso un comunicato preliminare della commissione incaricata di controllare le elezioni del 20 ottobre. Il risultato ufficiale dell’audit era previsto per il 12 novembre. Nella dichiarazione si affermava che “non era in grado di validare i risultati delle elezioni” e si “raccomandava” la convocazione di nuove elezioni e che si doveva procedere a una revisione delle liste elettorali. Questo è stato un duro colpo per Evo Morales che aveva insistito, contro l’opposizione (che richiedeva un secondo turno o le sue dimissioni) che tutti dovevano attendere l’audit dell’Osa e che lui avrebbe rispettato i suoi risultati. L’Osa ha chiaramente emesso questa dichiarazione al fine di accelerare la fine di Morales.
Una vittoria per la reazione
Evo Morales ha convocato quindi una conferenza stampa, quando ormai aveva già perso il sostegno dei burocrati sindacali della COB (Central obrera boliviana), che erano stati fedeli al suo governo da sempre. Alle 7 del mattino, Morales ha annunciato l’annullamento delle elezioni e la convocazione di nuove elezioni, con l’obiettivo di “pacificare il paese”. Almagro, segretario generale dell’Osa, ha insistito sul fatto che Morales avrebbe dovuto nel frattempo rimanere al potere e terminare il suo mandato. Ciò che l’imperialista Almagro desiderava era un trasferimento di potere secondo le regole e non lasciare la porta aperta all’idea che il rovesciamento di un governo tramite un’azione di massa fosse un’opzione accettabile. In effetti, in quel momento, Morales faceva affidamento sul sostegno dell’Osa.
Naturalmente, l’opposizione di destra guidata da Camacho, il leader del Comité Cívico di Santa Cruz e rappresentante dell’oligarchia reazionaria della regione cruceña, non ha accettato queste condizioni. La reazione è stata forte, con un gran numero di persone mobilitate per le strade, bande fasciste ben organizzate, il sostegno di ampi settori della polizia e l’acquiescenza dell’alto comando dell’esercito. Hanno chiesto le dimissioni di Morales ed erano preparati ad ottenerle con ogni mezzo necessario. Le forze della reazione sapevano cosa dovevano fare per raggiungere i loro obiettivi e stavano avanzando in maniera implacabile. Nel frattempo, il governo vacillava, si ritirava, offriva concessioni ed aveva le mani legate con nodi costituzionali e legali che si era creato da solo.
Mesa, il candidato dell’opposizione che aveva sfidato Morales nelle elezioni del 20 ottobre, che rappresentava un’ala più “moderata” dell’opposizione borghese, ha respinto anche lui la richiesta di nuove elezioni da parte di Morales, e ha insistito sul fatto che doveva dimettersi. La differenza tra Mesa e Camacho era di metodo. Mentre Mesa voleva un colpo di stato “ordinato e costituzionale” sotto il suo controllo, Camacho voleva una rottura chiara e netta sotto il suo controllo.
Nel primo pomeriggio, l’esercito ha annunciato che stava intervenendo nella situazione al fine di impedire ai “gruppi armati irregolari di attaccare la popolazione”, in riferimento ai tiratori scelti che avevano sparato ai minatori di Potosí. Stavano rompendo la catena di comando e agendo sulla base di ordini propri, disobbedendo a quelli del Presidente. Poco dopo, in un comunicato ufficiale hanno “suggerito” a Morales di dimettersi. Il colpo di stato era servito.
Una politica fatale di concessioni
Subito dopo l’aereo presidenziale di Evo Morales ha lasciato l’aeroporto di El Alto. C’erano voci secondo cui si sarebbe dovuto dirigere in Argentina, ma all’ultimo momento le autorità argentine hanno negato l’atterraggio, alla fine l’aereo è atterrato vicino a Cochabamba, nella regione di Chapare, dove Morales è nato e che gli è massicciamente fedele. Alle 4,50 del pomeriggio, Morales ha fatto un comunicato ufficiale da Chimoré, nella regione del Trópico di Cochabamba, dove annunciava le sue dimissioni. È stato seguito dal vicepresidente Alvaro García Linera, dimessosi anche lui. Per tutta la giornata si sono susseguite le dimissioni di decine di dirigenti del Mas. Alcuni hanno abbandonato la nave che affonda come topi, altri come conseguenza delle minacce della reazione (in alcuni casi le loro case sono state bruciare o le famiglie minacciate o sequestrate). La reazione era uscita vittoriosa dalla giornata.
Ci siamo opposti al colpo di stato in preparazione sin dal primo giorno e abbiamo sostenuto fermamente che poteva essere combattuto solo con mezzi rivoluzionari (vedi http://www.marxist.com/oas-eu-usa-out-of-bolivia.htm e http://www.marxist.com/bolivia-the-working-class-must-defeat-the-coup.htm). Il governo di Evo Morales ha fatto esattamente il contrario.
È importante capire come siamo giunti a questa situazione. Nelle precedenti elezioni del 2014, Evo Morales aveva superato il 63 percento dei voti, ma questa volta il suo appoggio è crollato al 47 percento. Dobbiamo essere chiari sul fatto che è stata la politica della conciliazione di classe e le concessioni ai capitalisti, alle multinazionali e ai proprietari terrieri che hanno eroso il sostegno al suo governo da parte dei lavoratori e dei contadini.
Giusto per fare alcuni esempi. Morales aveva stretto un accordo con l’industria agroalimentare di Santa Cruz, facendo ogni sorta di concessioni (revoca del divieto di colture geneticamente modificate, aperture a un’ulteriore deforestazione, accordi con la Cina per l’esportazione di carne). Era così sicuro di aver ottenuto un sostegno sufficiente che, durante il comizio di apertura della sua campagna elettorale tenutasi a Santa Cruz, ha salutato gli “imprenditori di Santa Cruz … che propongono sempre soluzioni per l’intera Bolivia”, e si vantava degli accordi con la Cina per l’esportazione di carne, soia e quinoa.
A Potosí abbiamo visto una mobilitazione di massa contro Evo Morales che non aveva la stessa composizione sociale del movimento reazionario a Santa Cruz. Ci sono delle ragioni per questo. Qui è stata contestata la concessione per l’estrazione del litio a una multinazionale tedesca. Il contratto conferiva ad ACI Systems (una società senza precedenti esperienze nel settore) un contratto di 70 anni (rispetto ai contratti standard di 30 anni in altri paesi dell’America Latina) e il pieno controllo di fatto sulla gestione della società, che avrebbe dovuto essere una joint venture con lo stato. Questa mossa è stata vista da molti come la consegna delle risorse naturali del paese a una multinazionale straniera, da parte di un governo che afferma di essere antimperialista, con ben pochi benefici per la popolazione locale. Il contratto è stato uno dei motivi principali per le proteste di massa anti-governative a Potosí, che erano iniziate prima delle elezioni. Infine, sabato 9 novembre, Evo Morales ha emesso un decreto di revoca delle concessioni. Troppo poco e troppo tardi.
Per aggiungere il danno alla beffa , Evo Morales ha nominato come candidato principale alla carica di senatore di Potosí un proprietario di miniere ed ex politico di destra, Orlando Careaga. Aveva fatto parte dell’odiato MNR di Goñi Sánchez de Losada, rovesciato dal movimento rivoluzionario di operai e contadini nel 2003. Careaga è poi diventato senatore di un altro partito di destra nel 2004-09, mentre Morales era già presidente. La sua nomina è stata osteggiata dai dirigenti locali del MAS ed è stata accolta con rabbia dalle organizzazioni dei movimenti sociali. A Chuquisaca, la candidata alla MAS Martha Noya Laguna, era stata vice-ministro sotto Goñi. Tutto ciò ha contribuito a allontanare il MAS dalla sua stessa base sociale, oltre a consentire lo sviluppo di un movimento di massa contro di esso nei dipartimenti che avevano sostenuto solidamente Evo in passato.
Allo stesso modo, Evo Morales ha legato il suo destino al segretario generale dell’Osa Almagro, un politico di destra, reazionario, filoimperialista. Morales ha perso il referendum del 2016 sulla riforma costituzionale, convocato per consentirgli di candidarsi nuovamente alla presidenza. Il risultato, con il 51 percento contro e il 48 percento a favore della cancellazione del limite massimo di mandato, era già un’indicazione della perdita di sostegno popolare per il suo governo. In seguito, la Corte suprema boliviana ha sostenuto che candidarsi alla rielezione era un diritto umano e quindi Evo Morales poteva presentarsi. Luís Almagro ha fatto una dichiarazione pubblica in sostegno di questa decisione, che ha provocato l’ira di tutta l’opposizione boliviana. In questo modo, Evo ha legato il suo destino alle decisioni di Almagro. L’Osa è stata invitata, da Morales, a supervisionare le elezioni, e poi quando l’opposizione ha gridato alla frode, lo stesso Morales ha invitato l’Osa a svolgere un audit. È stata la logica prosecuzione della sua politica di concessioni ai capitalisti e all’imperialismo, una cosa che gli è costata cara.
Lavoratori e contadini: riscoprite le vostre tradizioni rivoluzionarie!
La vittoria della reazione in Bolivia avrà un impatto oltre i suoi confini. Ha già dato coraggio all’opposizione reazionaria in Venezuela. Nella stessa Bolivia, c’è una lotta aperta tra diversi settori della classe dominante. Camacho e l’oligarchia cruceña vogliono una lavagna pulita, l’arresto e il processo per tutti i dirigenti e i funzionari del MAS, un governo di transizione che coinvolga loro stessi, la polizia e l’esercito, e elezioni a condizioni che siano loro favorevoli. Nel frattempo, Mesa sta cercando freneticamente un “appiglio costituzionale”, perché sia l’attuale parlamento quello incaricato di indire nuove elezioni. Qualunque sia il risultato di questa lotta, in Bolivia la destra ha preso il sopravvento e formerà un governo (legittimato dalle elezioni, ad un certo punto), che scatenerà un’ondata di attacchi contro lavoratori, contadini, indigeni e distruggerà tutte le conquiste rimanenti di questi ultimi 14 anni.
L’immagine dei leader “civici” Camacho e Pumari che entrano nel Palacio Quemado (l’ex sede del governo a La Paz) con la Bibbia in mano e con una bandiera boliviana vecchio stile (al contrario del whipala indigeno, bandiera che ora è stato tolta da tutti edifici ufficiali) fornisce una chiara idea del carattere delle forze dietro questo colpo di stato.
I lavoratori e i contadini in Bolivia dovranno organizzare una risposta di lotta, e per farlo è necessario imparare le lezioni del governo del MAS. È stata la politica delle concessioni ai capitalisti, alle multinazionali e all’agro-business, che ha eroso la base del sostegno al governo, aprendo così la strada al colpo di stato. I capitalisti, pur incassando le concessioni che Morales era disposto a fornire loro, non si sono mai completamente riconciliati con l’idea di un governo guidato da un sindacalista indigeno, un governo che era un sottoprodotto delle rivolte rivoluzionarie del 2003 e del 2005. Hanno solo aspettato il momento giusto per passare al contrattacco e riprendersi il potere. Il rovesciamento del governo Evo Morales è ancora una volta la conferma del fallimento dei metodi riformisti.
La conclusione è chiara: l’unico modo per assicurare conquiste permanenti a lavoratori e contadini non è attraverso accordi con capitalisti, banchieri, proprietari terrieri e multinazionali, ma piuttosto per mezzo della mobilitazione di massa rivoluzionaria degli oppressi al fine di spezzare il potere economico dell’oligarchia capitalista e dell’imperialismo. Solo espropriando i mezzi di produzione, la terra e le risorse minerarie della classe dominante sotto il controllo dei lavoratori, questi ultimi potranno essere utilizzati, come parte di un piano democratico di produzione, per soddisfare i bisogni della maggioranza della popolazione. I lavoratori e i contadini boliviani hanno tradizioni rivoluzionarie di cui essere orgogliosi. Devono recuperare lo spirito e il programma delle tesi di Pulacayo, adottate dal Sindacato dei minatori nel 1946: “il proletariato dei paesi sottosviluppati è costretto a combinare la lotta per i compiti democratici borghesi con la lotta per il socialismo”.