Amadeo Bordiga – Ascesa e aduta di un rivoluzionario

Quello di Amadeo Bordiga all’interno del movimento comunista è un percorso autonomo, peculiare, che solo occasionalmente e su singole questioni trovò convergenze e affinità con altri esponenti dei diversi partiti in Europa, con altre correnti del comunismo. Da ciò discende l’impossibilità di inquadrarlo in una qualche tendenza che non abbia il suo nome, neppure per brevi periodi, quando pure fece parte di fronti politici che andarono molto al di là della sua persona. Contribuisce a rendere quella di Bordiga una concezione politica sui generis anche la sua natura non sistematica. Egli espresse il suo pensiero in interventi puntuali e sparsi, rifiutandosi di dargli una veste organica: la sua produzione è composta da pochi lavori d’insieme e un numero incalcolabile di articoli, note, documenti, sempre legati alla battaglia contingente, utili agli obiettivi del momento. Questo modo di operare è senz’altro uno dei motivi che ne hanno decretato il sostanziale oblio nella tradizione comunista. L’altro, più importante, va individuato nella sconfitta che pochi anni dopo la nascita del Partito Comunista d’Italia subì la sua opzione politica, vinta dall’alternativa interna rappresentata dal gruppo di Gramsci e Togliatti e affossata dalla degenerazione staliniana che condannò lui e i suoi seguaci al minoritarismo politico e a un perpetuo ostracismo dal movimento internazionale.


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Nonostante ciò, è innegabile il merito storico di essere stato il principale artefice della scissione di Livorno che portò alla nascita del Partito Comunista d’Italia, e la sua figura di spicco nei primi, travagliati anni di vita. Una montagna di opinioni e giudizi non può cancellare questo fatto, che da solo definisce la sua importanza nella storia del movimento operaio del nostro paese.

La formazione politica e gli anni della guerra

Amadeo Bordiga si forma politicamente nella sua città natale, Napoli, in un contesto che, per contrasto, incise profondamente sulla sua riflessione e sulla sua azione successiva. Nei primi anni del ‘900 la giovane classe operaia della città partenopea si organizzava ancora nella Borsa del lavoro, una lega di stampo corporativo, mentre, sul piano politico, il partito socialista si caratterizzava per una spiccata autonomia rispetto alla linea nazionale. Tratto peculiare del socialismo napoletano era il moderatismo elettoralista: il partito era nei fatti un comitato elettorale a disposizione di alcuni notabili locali, in alcuni casi legati alla massoneria. Il dibattito politico era asfittico e improntato a un gradualismo riformista che prevedeva per il meridione d’Italia una lenta evoluzione verso il capitalismo, lasciandosi indietro i caratteri semifeudali della sua economia.

Bordiga si formò in maniera autonoma rispetto a questo contesto, approfondendo lo studio dei classici del marxismo e maturando una forte opposizione nei confronti della sinistra della sua città. Nel 1912, appena ventitreenne, promosse, in aperta rottura con la direzione locale, la fuoriuscita dal partito di un gruppo di giovani socialisti e la fondazione del Circolo socialista rivoluzionario Carlo Marx. A lui in questa esperienza si unirono alcuni dei compagni che lo accompagneranno a lungo, formando un primo nucleo attorno al quale fondare la sua battaglia politica.

La prima tribuna nazionale gli fu offerta da una polemica che agitò la federazione giovanile socialista e fu ospitata sulle pagine di Avanguardia, suo organo ufficiale. Un gruppo di giovani, tra cui spiccava la figura di Angelo Tasca, avviarono un dibattito circa la necessità di elevare il livello delle proprie pubblicazioni, proponendo di trasformare Avanguardia da strumento di agitazione a periodico di approfondimento. Era, in sostanza, un invito a studiare rivolto ai militanti della federazione giovanile. Bordiga rispose duramente sottolineando il carattere classista della cultura allora impartita nelle scuole e praticata nei circoli socialisti. Per il giovane studente napoletano la formazione della classe operaia non si sarebbe dovuta compiere nelle aule scolastiche, ma nel vivo della lotta sociale: «la lotta di classe come fattore educativo», per dirla con le sue parole.[1]

Nel dibattito sulla cultura egli vide l’ennesimo sintomo di una sudditanza del socialismo italiano nei confronti dei pregiudizi piccolo borghesi dei suoi dirigenti e ciò gli offrì l’occasione di approfondire i termini del dissenso che iniziava a maturare nei loro confronti. Bordiga individuò il principale problema del movimento nelle «due concezioni degenerate dell'idea socialista: il riformismo ed il sindacalismo»[2]. Il partito socialista aveva fatto sua una concezione del marxismo eclettica – in cui ai testi di Marx ed Engels si aggiungevano quelli di Lassalle[3] e suggestioni provenienti da Sorel[4] e Bergson[5] – che in qualche modo ne giustificava l’orientamento elettoralistico e la continua tendenza a cercare accordi con le forze borghesi nel parlamento nazionale e nelle amministrazioni locali. Parafrasando una sua affermazione, si attribuiva al mezzo, ossia la riforma, una importanza maggiore che alla meta, che doveva essere la rivoluzione[6]. Il riformismo contagiava anche i rapporti con il movimento sindacale, al quale né si chiedeva una posizione subordinata politicamente, né di superare una concezione corporativa. La soluzione che il giovane Bordiga comincia in questi anni a delineare si basava su una interpretazione fedele del pensiero di Marx, per cui occorreva purificare il proletariato dalle scorie ideologiche della classe dominante attraverso la lotta.

Uno dei veicoli attraverso cui la borghesia esercitava il suo controllo sulla società era il sistema democratico borghese, perciò il rivoluzionario napoletano approfondì la riflessione sulla natura dello Stato e sul suo funzionamento. Il bersaglio è l’illusione che la democrazia parlamentare possa tornare utile ai lavoratori. Contro questo errore egli obietta che «al fianco dell’uguaglianza politica sussiste la diseguaglianza economica […] che fa sì che il governo sia sempre il monopolio di una minoranza: la classe ricca, la borghesia»[7]. Per ora egli conclude che si debba rifiutare ogni proposta di accordo con forze non socialiste, diversamente da quanto proponeva la destra del PSI, ma la riflessione è destinata ad avere ben altro sbocco, come si vedrà.

Negli anni che precedono la guerra la classe operaia napoletana cominciò a muoversi in maniera più consapevole della propria forza, contestando i sacrifici imposti dall’avventura coloniale in Libia e svolgendo un ruolo da protagonista nei moti della settimana rossa, scoppiati a causa dell’eccidio di tre manifestanti ad Ancona nel giugno ’14. Questo protagonismo confermò in Bordiga – nel frattempo rientrato nelle file del partito socialista – l’idea che il gradualismo socialista non era giustificato dalla situazione del mezzogiorno, che pur versando in una condizione di arretratezza economica era pienamente inserito nel quadro economico e sociale del capitalismo[8]. Una conclusione che lo avvicinava alle più articolate riflessioni che Trotskij e Lenin avevano sviluppato in seguito alla Rivoluzione russa del 1905 e che si sarebbero ulteriormente affinate a partire dal febbraio del ’17[9].

Ad avvicinarlo ulteriormente al marxismo russo contribuì la guerra mondiale, che segnò una separazione netta tra la tendenza riformista e quella rivoluzionaria in seno al movimento operaio[10]. Fedele alle risoluzioni dell’Internazionale socialista precedenti allo scoppio del conflitto, Bordiga sostenne una linea fermamente neutralista. Consapevole che per contrastare le pressioni esercitate dalla borghesia interventista sulla direzione del partito sarebbe stata necessaria una maggiore organizzazione, pratica e teorica, della sinistra interna, avviò una dura campagna propagandistica contro la guerra dalle pagine della rivista della sezione napoletana del PSI Il Socialista[11]. Contro il blando neutralismo del PSI, sintetizzato nello slogan ‘né aderire né sabotare’ lanciato dal segretario Lazzari, Bordiga dichiarò la necessità di un neutralismo attivo e rivoluzionario che doveva essere sostenuto con la parola d’ordine dello sciopero generale.

«Neutralità significa per noi – scriveva – intensificato fervore socialista nella lotta contro lo stato borghese, accentuarsi di ogni antagonismo di classe che è la vera fonte di ogni tendenza rivoluzionaria»[12].

Pur senza essere in contatto diretto con le avanguardie che nei diversi paesi stavano preparando l’opposizione rivoluzionaria al massacro imperialista, Bordiga ne condivideva la piattaforma classista e rivoluzionaria, intuendo l’impatto che lo scontro fratricida avrebbe avuto sulla coscienza delle masse.

I primi sommovimenti si ebbero a febbraio del 1917 in Russia, ma il malcontento quell’anno serpeggiò tra i lavoratori di tutti i paesi. In Italia la disfatta di Caporetto e le voci della Rivoluzione russa rafforzarono l’idea propria della sinistra del PSI di dover fare un salto di qualità nella lotta interna. Nacque così, nel mese di luglio, la frazione “intransigente e rivoluzionaria”, che poteva contare una forte base nella federazione giovanile, nella quale era notevolmente aumentato il prestigio di Bordiga, da alcuni mesi direttore di Avanguardia e voce più ascoltata dell’opposizione alla guerra[13]. La prima riunione della frazione, tenuta a Firenze a novembre, offrì la possibilità ai futuri protagonisti della nascita del partito comunista di incontrarsi: Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci e Giacinto Menotti Serrati si conobbero, infatti, in quell’occasione per la prima volta[14].

Quando si tenne la riunione di Firenze, Bordiga stava maturando, sulla scorta anche degli avvenimenti esteri, il nucleo fondamentale della sua riflessione. In Italia le notizie dell’Ottobre russo arrivavano col contagocce e spesso distorte dalla stampa internazionale e nazionale. Inoltre, a tessere i rapporti con le altre organizzazioni all’estero era Serrati, che lo faceva, al suo solito, con tentennamenti e ambiguità, motivo per cui la sinistra del partito socialista, e soprattutto Bordiga, fu costretta a procedere a tentoni nell’elaborazione teorica e politica della fase. Ciò spiega, almeno in parte, le titubanze e le indecisioni che caratterizzarono l’azione della frazione rivoluzionaria nei mesi successivi.

All’interno della nuova formazione spiccava l’analisi di Bordiga. Un articolo apparso sull’Avanguardia[15] lanciò la parola d’ordine della «costruzione di una compagine omogenea di forze miranti ad uno scopo unico […], un nuovo grande organismo rivoluzionario mondiale […], il partito politico socialista mondiale» la cui finalità doveva essere «la trasformazione rivoluzionaria delle attuali istituzioni economiche e politiche.» La nascita di una nuova internazionale poneva all’ordine del giorno anche la fondazione di nuovi partiti: «la Internazionale si darà ad organizzare le forze specificamente capaci di porre ovunque in atto il grande "passo" che l'umanità dovrà compiere.» L’obiettiva convergenza con le altre avanguardie europee, in particolare con i bolscevichi, sulla necessità di una nuova internazionale e l’intuizione dell’esigenza di un nuovo partito in grado di portare a termine la rivoluzione socialista ponevano la sua riflessione in linea con quanto andavano maturando i principali dirigenti comunisti negli altri paesi. A questo nucleo di riflessioni aggiungeva, con il consueto schematismo, un programma che, superando «l'antica capziosa distinzione tra programma massimo e minimo» e ribadendo la necessaria «intransigenza tattica», fornisse l’orientamento generale all’internazionale:

«I fondamenti positivi sui quali dovrà basarsi la nuova Internazionale, in sintesi conclusiva, così ci proviamo a riassumerli:

dottrina: interpretazione marxista della storia e della società;

programma: conquista violenta del potere ed esercizio di esso per attuare la socializzazione dei mezzi di produzione;

metodo. azione politica intransigente di classe con disciplina collettiva».

Sono ormai delineati i punti cardine del suo pensiero: l’insanabile opposizione tra proletariato e borghesia sarebbe necessariamente dovuta sfociare nella rivoluzione socialista, che doveva essere perseguita rifiutando ogni possibile terreno di contaminazione della classe con pratiche che potessero indebolirne l’azione tesa alla presa del potere. Un nucleo di idee sostanzialmente corrette, ma poste in maniera rigida e schematica. Emerge chiaramente la tendenza, che sarà caratteristica di tutto il pensiero bordighiano, a sovrapporre programma, tattica e strategia. Lo si evince anche dalla struttura delle sue pubblicazioni, in cui, all’analisi concreta dei fatti, opponeva una discussione dei precetti fondamentali del marxismo, che diventava, in questo modo, una dottrina alla quale conformare la realtà, piuttosto che uno strumento di analisi e trasformazione della realtà concreta. Difetti, questi, destinati ad avere importanti ripercussioni nelle sue successive battaglie.

Intanto ad aprile nel partito socialista la frazione intransigente di Serrati vinceva, in assenza di Bordiga chiamato al fronte, il congresso di Roma, ma sul suo carro saliva buona parte dei settori più moderati, deviando gli obiettivi che si erano discussi a Firenze pochi mesi prima[16]. Cominciava una nuova fase.

La nascita del Partito Comunista d’Italia: dal congresso di Bologna al congresso di Livorno

La fine della guerra provocò un salto di qualità nella lotta di classe in Italia. Il venire meno delle commesse pubbliche provocò un crollo della produzione, per giunta non in grado di reggere la concorrenza estera in molti settori. Il padronato provò a scaricare i limiti del sistema sui lavoratori, che reagirono. Anche a Napoli il proletariato aveva fatto notevoli progressi in termini di consapevolezza e organizzazione, abbandonando le vecchie centrali corporative e facendo nascere prima la FIOM, poi la Camera del lavoro provinciale. Un ruolo propulsivo in questo senso lo ebbe Bordiga, che, nel dicembre ’18, fondò il Soviet come organo della federazione socialista partenopea e della locale CGL[17]. L’ondata rivoluzionaria che travolse il continente era destinata, però, a cambiare ben presto i connotati del settimanale.

L’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht a opera della SPD e il fallimento della repubblica dei consigli in Ungheria esercitarono una profonda impressione su Bordiga, che esasperò alcune delle sue concezioni. Si rafforzò in lui la convinzione che occorreva porre una netta separazione tra rivoluzionari e riformisti e cercò uno strumento programmatico in grado di discernere all’interno del movimento socialista i primi dai secondi. Lo strumento in questione fu individuato nell’astensionismo, destinato a diventare uno dei capisaldi del bordighismo. Partendo dalla contrarietà alla tendenza agli accordi elettorali e parlamentari della destra socialista e sindacale, ritenne utile indicare nella non partecipazione elettorale uno criterio che, preservando la purezza della classe, evitava al contempo di distrarla dell’obiettivo rivoluzionario. In questo modo egli disponeva di un pungolo politico nei confronti dell’ala massimalista del partito socialista e allo stesso tempo di un collante ideologico per costruire un raggruppamento più conseguentemente rivoluzionario.

Negli stessi mesi in cui perfezionò la parola d’ordine dell’astensionismo, Bordiga diede vita anche a un altro dibattito in seno agli intransigenti. Scontrandosi con Antonio Gramsci, egli alimentò un confronto sulla natura dei soviet nella rivoluzione italiana. A suggerire i due diversi punti di vista fu anche il differente sviluppo che ebbe il movimento operaio nei mesi infuocati del biennio rosso. A Napoli le lotte furono dure, guidate dal gruppo bordighiano secondo una concezione di rigida subordinazione delle singole vertenze all’obiettivo politico rivoluzionario, e dirette dalla nuova organizzazione camerale. A Torino, autentica capitale del proletariato italiano, nacquero i consigli di fabbrica, che, invece, superavano la divisione tra operai sindacalizzati e non, e costituivano un embrione di contropotere nel luogo di produzione. Di fronte a questo fenomeno spontaneo, Bordiga, che non ne ebbe esperienza diretta, contestò l’entusiasmo e l’investimento politico fatto dal gruppo dell’Ordine Nuovo, che vi individuava la forma peculiare italiana corrispondente ai soviet russi e ai Räte (consigli) tedeschi. Egli riteneva questi organismi troppo corporativi e in contraddizione con il lavoro cosciente del partito, l’unico «organo della rivoluzione finché esiste il potere borghese»[18]. Inoltre, negava ogni confronto con i soviet russi, che erano «una rappresentanza politica della classe lavoratrice»[19] sorta su base territoriale, e dunque non di officina, dopo la presa del potere. Bordiga dimostrava di non avere compreso come, nel conflitto con la borghesia, i soviet russi fossero un’organizzazione di autogoverno del proletariato all’interno della quale il partito doveva operare per conquistare la maggioranza della classe alla prospettiva rivoluzionaria. D’altronde, il problema della natura del partito e del suo rapporto con la classe nel suo complesso sarà uno dei capitoli che più separeranno la concezione bordighiana da quella leninista.

Nel 1919 – l’anno che vide nascere a Mosca l’Internazionale Comunista e in Germania la KPD – l’elaborazione politica di Bordiga si dimostrò, alla prova dei fatti, incapace di produrre quegli effetti che avrebbe voluto. Il dirigente napoletano aveva iniziato ad avanzare l’idea di una scissione dal PSI già da tempo, ma almeno fino alla primavera di quell’anno ritenne possibile salvare alla causa del comunismo tutto il blocco massimalista serratiano. Nei mesi seguenti, con il parallelo approfondirsi dello scontro di classe e dell’orientamento elettoralista del PSI massimalista, accentuò i motivi di distacco dalla maggioranza del partito[20], con cui il dissenso si accrebbe a mano a mano che si approssimava il congresso nazionale, convocato a Bologna nel mese di ottobre. In vista di questo appuntamento ruppe gli indugi e pubblicò sulle pagine del suo giornale il programma della frazione comunista, richiamandosi apertamente all’Internazionale comunista.

All’audacia dell’iniziativa non corrispose un’adeguata preparazione dell’intervento nel congresso, e i risultati furono molto deludenti per la prospettiva auspicata da Bordiga. Egli sperava di fungere da pungolo per il grosso dei massimalisti e spingerli a rompere con i riformisti riuniti attorno a Turati. Non aveva, però, considerato che l’ascesa della lotta nel paese e il forte consenso rivolto al partito avrebbe reso Serrati ancora più cedevole ai richiami all’unità di quanto già non lo fosse di suo. Inoltre, la parola d’ordine dell’astensionismo si era rivelata un filtro dalle maglie troppo strette, in grado certamente di coagulare un nucleo ben definito di militanti in tutta Italia, ma in numero assolutamente insufficiente per pensare a un percorso autonomo. Ciò era tanto più vero se si considera che a Bologna la retorica rivoluzionaria era sulle labbra di quasi tutti gli oratori e l’adesione all’Internazionale comunista fu sancita per acclamazione, togliendo alla battaglia bordighiana un importante elemento di distinzione. Per di più il programma presentato da Bordiga mostrava tutti i difetti che caratterizzavano il suo metodo: esso era costruito tutto su principi generali e non prevedeva alcuna parola d’ordine che non fosse la dittatura del proletariato, agevolando il compito delle altre mozioni, più ancorate alle dinamiche concrete del conflitto in corso, almeno superficialmente. All’indomani del congresso, che vide trionfare la mozione di Serrati e l’unità dei massimalisti e dei riformisti, venne formalizzata la frazione comunista astensionista e il Soviet ne divenne l’organo ufficiale. Il primo tentativo di imprimere un’accelerazione al processo di distinzione tra riformisti e rivoluzionari era fallito, proprio con l’approssimarsi dello scontro decisivo, ma Bordiga si era conquistato il primato nell’iniziativa scissionista.

L’anno decisivo per la lotta di classe in Italia e per la battaglia politica di Bordiga fu il 1920. L’ondata di scioperi iniziata l’anno precedente proseguì e si intensificò. Allo sciopero delle lancette di marzo seguì l’occupazione delle fabbriche ai primi di settembre. Il movimento operaio pose con forza la questione del potere, ma il PSI lasciò dirigere la vertenza alla CGL riformista, che fece deragliare il movimento verso rivendicazioni molto al di sotto delle potenzialità espresse nella lotta.

L’incapacità della direzione politica venne enfatizzata al II congresso dell’Internazionale Comunista, che si tenne a Mosca in estate. La prospettiva su cui lavorava la direzione bolscevica era quella a cui Bordiga non era riuscito ad arrivare al congresso di Bologna: separare massimalisti e comunisti dai riformisti di Turati. Ciò fu chiarito esplicitamente in ogni dibattito e nei 21 punti per aderire al Comintern. Per quel che riguarda il programma, Bordiga dovette ingoiare il boccone amaro di una preferenza accordata dall’esecutivo dell’Internazionale alle posizioni ordinoviste, più attente al tema della conquista delle masse alla prospettiva comunista rispetto alla riflessione bordighiana[21].

Anzi, questa fu esplicitamente attaccata da Lenin nella sessione – per la quale il rivoluzionario russo si era preparato da tempo con la pubblicazione dell’Estremismo malattia infantile del comunismo – dedicata al lavoro parlamentare. Bordiga aveva rivendicato una specificità del movimento comunista occidentale rispetto a quello russo perché operava in paesi dove la democrazia borghese aveva potuto agire per più lungo tempo, illudendo i lavoratori meno coscienti.[22] Da ciò la netta, dogmatica contrapposizione tra democrazia, che per Bordiga coincideva del tutto con il parlamentarismo, e comunismo. Lenin obiettò che «la storia della rivoluzione russa [aveva] dimostrato precisamente che nessun argomento può convincere le grandi masse della classe operaia, i contadini, i piccoli impiegati, se essi non si convincono per esperienza propria», un’esperienza che i comunisti dovevano far maturare lavorando nelle istituzioni borghesi per dimostrarne il carattere reazionario.[23]

La polemica sull’astensionismo era il sintomo di una diversità di vedute tra Bordiga e il bolscevismo riguardo la natura del partito rivoluzionario e i suoi compiti destinata ad aumentare nel tempo, ma le cui caratteristiche erano già delineate. Nell’elaborazione di Bordiga si oscillava tra una fiducia quasi messianica nella rivoluzione socialista come prodotto dell’azione politica di masse proletarie non corrotte da derive corporative e riformiste, e una concezione del partito come piccola minoranza ideologicamente avvertita che doveva attendere il momento giusto per impossessarsi del potere politico. Mancava del tutto una riflessione sul programma e sul modo tramite il quale il partito doveva conquistare la fiducia della massa per condurla alla vittoria nel momento rivoluzionario. In sostanza Bordiga non condivise mai il metodo di costruzione del partito e la decisiva sistemazione teorica del rapporto tra avanguardia e massa a cui era pervenuto Lenin.

Ciò emerse quando, al rientro dalla Russia, Bordiga cominciò a lavorare alla fondazione del partito comunista. Noncurante del tema della conquista della maggioranza del movimento operaio italiano e approfittando dell’inasprirsi della critica internazionale nei confronti di Serrati,[24] contrario all’espulsione dei riformisti dal PSI, egli lavorò per una scissione che tenesse fuori dal nuovo partito tutta la corrente centrista del partito e includesse, oltre alla frazione astensionista, i soli ordinovisti. Il preludio della scissione furono due incontri tenuti in autunno a Firenze e Imola, a cui parteciparono i principali esponenti dei due gruppi. Bordiga, che era la figura più riconosciuta nazionalmente di quel nuovo raggruppamento, si allineò alle direttive internazionali, per cui dichiarò che l’obiettivo degli incontri era quello di conquistare la maggioranza del partito alla propria prospettiva, e, sul piano organizzativo, segnalò l’intenzione di sciogliere la sua frazione nella più ampia compagine comunista che si sarebbe formata.[25]

Il “Comitato provvisorio della frazione comunista del Partito socialista italiano” cementò la sua unione anche grazie al tradimento delle lotte di settembre, che fece rompere gli indugi anche agli elementi più titubanti. D’altra parte, si approfondì ulteriormente il divario con Serrati, in cui si rafforzò la preoccupazione di mantenere unito il partito nonostante aumentassero i suoi errori.

Si giunse così, nel gennaio del 1921, al congresso di Livorno del PSI. A difendere la mozione del comitato provvisorio fu Bordiga. Nel suo discorso egli rilesse la storia del partito alla luce della dottrina marxista, osservando l’involuzione che lo aveva colpito, facendogli prediligere il gradualismo alla rivoluzione, il programma minimo a quello massimo. Quando l’ultimo giorno del congresso, il 21, vennero comunicati i voti del congresso, risultò che la mozione dei comunisti unitari di Serrati aveva conquistato la maggioranza con 98.098 voti, poco meno del doppio di quelli andati ai comunisti puri di Bordiga (58.783), mentre i riformisti turatiani raccolsero 14.695 voti. Bordiga si alzò e dichiarò a gran voce che la maggioranza del congresso, con il rifiuto di espellere i riformisti, si era posta col suo voto al di fuori della III internazionale comunista. Poi proseguì: «I delegati che hanno votato la mozione della frazione comunista abbandonino la sala e sono convocati alle 11 al teatro San Marco per deliberare la costituzione del partito comunista, sezione italiana della Terza Internazionale.»[26] Era nato il PCd’I. Bordiga ne era la figura di spicco.[27]

La fondazione del partito, tuttavia, non risolveva i numerosi problemi posti dalla rivoluzione italiana nei mesi precedenti e, anzi, fece venire al pettine alcuni dei nodi politici che distinguevano i comunisti italiani dall’Internazionale. Principale bersaglio delle critiche di Bordiga al congresso erano stati i centristi, cosa che rese evidente come per lui la linea di demarcazione tra comunisti e socialdemocratici li ponesse nel campo di quest’ultimi. E lo faceva in maniera definitiva. Lenin pensava che la separazione dai serratiani dovesse tendere a recuperarli alla battaglia rivoluzionaria in un secondo momento. Non così Bordiga, per il quale la cesura aveva carattere permanente. Si era così cristallizzato un rapporto di forze del quale non ci si poteva dolere troppo. In altre parole, il minoritarismo non era per Bordiga un problema, ma l’esito inevitabile di un processo storico. Questa riflessione riproponeva il tema della conquista della maggioranza del proletariato e della funzione storica del partito comunista. Su questi temi le divergenze con la III Internazionale erano destinate ad aumentare.

Dalla fondazione del PCd’I alla lotta contro lo stalinismo

Con il congresso di Livorno si inaugura una nuova fase di elaborazione teorica e tattica che impegnerà Bordiga in un contesto che vide bruschi e rapidi cambiamenti. Il secondo congresso del partito, che ebbe luogo a Roma nel marzo del 1922, e il terzo e quarto congresso dell’Internazionale comunista segnano le tappe di un processo di definizione della concezione politica bordighiana rispetto al leninismo.

Il primo tema che si impone all’attenzione di Bordiga riguarda la natura del partito e il suo rapporto con la classe lavoratrice.[28] Spaventato dalle molteplici forme che una classe descritta in base ai rapporti di produzione può assumere, egli cercò di individuare un criterio che consentisse all’osservatore di delimitare le classi in due campi contrapposti ben definiti. Lo trovò nella coscienza di classe: una classe sociale è tale se ha precisa cognizione dei propri interessi e dei propri compiti storici, «una più precisa coscienza di identità di interessi.»[29] La consapevolezza di questi comuni interessi viene però solamente da una minoranza «tendente a organizzarsi in partito politico»: «senza non si potrebbe nemmeno parlare di classe», anzi, «la classe presuppone il partito».[30] Bordiga, in tal modo, rinunciando a definire la classe in base al suo ruolo nel sistema capitalistico di produzione, virava verso una concezione metafisica e astratta delle classi sociali, alterando così anche il ruolo del partito, che non può in alcun modo sostituirsi alla classe, come sembra si debba concludere dal ragionamento impostato dal dirigente napoletano. Ancora una volta egli svolgeva la sua riflessione in maniera del tutto avulsa dall’esperienza concreta: non una parola sull’occupazione delle fabbriche e sul ruolo concreto svolto dal PSI, la cui colpa, anzi, secondo lui sarebbe stata quella di avere troppo assecondato la scarsa coscienza della classe lavoratrice. In realtà il partito aveva coscientemente sabotato la spinta della classe operaia che nei principali centri industriali, contrariamente ai preconcetti bordighiani, aveva dato prova di uno straordinario istinto di classe e aveva conteso il potere alla classe borghese.

Egli poi precisò la natura del partito:

«Un partito è un insieme di persone che hanno le stesse vedute generali dello sviluppo della storia, che hanno una concezione precisa delle finalità della classe che rappresentano, e che hanno pronto un sistema di soluzioni dei vari problemi che il proletariato si troverà di fronte quando diverrà classe di governo.»[31]

Come si nota da questa citazione, il partito non è una parte della classe, definizione che egli arrivò a contestare ai bolscevichi, ma un ‘organo’ della classe,[32] un corpo estraneo con il compito di vivificare la massa inerte al momento della frattura rivoluzionaria, che giungerà quando i lavoratori, consapevoli delle proprie sofferenze, si rivolteranno. La contraddizione tra una classe che non è tale se non è cosciente della propria situazione e una improvvisa coscienza che rende la situazione rivoluzionaria determina una concezione deterministica e fatalistica dei processi storici.

Un fatalismo che annullava ogni elaborazione programmatica, che rendeva superfluo ogni accorgimento tattico volto alla conquista di più ampi strati della classe lavoratrice:

«il partito è necessario alla vittoria rivoluzionaria in quanto è necessario che molto prima una minoranza del proletariato cominci a gridare incessantemente al rimanente che occorre armarsi per l’urto supremo, armandosi essa stessa ed istruendosi alla lotta che sa inevitabile.»[33]

Queste premesse portarono a un confronto serrato con il Comintern, che cercò ripetutamente di modificare la tattica del partito italiano sia per quanto concerneva la questione elettorale, sia, soprattutto, circa la questione del fronte unico.

L’autorità di Bordiga nel partito al momento della sua fondazione era indiscussa, ma le sfide che questo si trovò ad affrontare sin dai primi anni di vita la incrinarono nel volgere di alcuni anni. Fallita l’offensiva operaia nel settembre del ’20, cominciò a prendere piede la risposta controrivoluzionaria incarnata dal fascismo. L’analisi bordighiana del fenomeno fu improntata al più rigido dogmatismo. Bordiga nell’analizzare il fascismo prese le mosse dalla sua interpretazione della democrazia borghese come forma più efficace del controllo capitalistico sulla società e dalla sua definizione della socialdemocrazia come ala sinistra dello schieramento borghese. Egli arrivò ad affermare: «non crediamo alla possibilità del colpo di stato di destra, della rivoluzione a rovescio, che ci regali un regime peggiore di quello monarchico e parlamentare che godiamo.»[34] Il fascismo era dunque un movimento democratico, anzi ‘tendenzialmente socialdemocratico’,[35] funzionale all’obiettivo di formare un governo che includesse proprio la socialdemocrazia. Una prospettiva – secondo Bordiga – che avrebbe affrettato la rivoluzione socialista mostrando in maniera definitiva il vero volto del capitalismo. Una concezione manichea della realtà che gli impedì di cogliere le trasformazioni nella forma di dominio capitalistico e le conseguenze che ciò comportava anche sull’azione della classe operaia.

Questa lettura del fascismo paralizzò l’azione del partito, che rifiutò qualsiasi adesione all’autodifesa proletaria unitaria degli Arditi del Popolo e la partecipazione come partito all’Alleanza per il Lavoro, tentativo di resistenza sindacale al susseguirsi di azioni squadriste contro i lavoratori. Arroccato nel suo isolamento settario in patria e recalcitrante a seguire la linea dell’Internazionale, il PCd’I entrò in una crisi di prospettive e di militanza proprio negli anni in cui più dura si fece la repressione fascista, con assalti alle sedi del partito e delle altre organizzazioni della classe, e ripetuti arresti dei dirigenti. Bordiga mantenne la sua linea di intransigente opposizione a ogni proposta di fusione con la sinistra socialista, su cui lavorava da tempo l’esecutivo dell’Internazionale, e concretizzò la sua strenua contrarietà rifiutando di svolgere qualsiasi ruolo direttivo nell’Internazionale e rassegnando le dimissioni dall’esecutivo del partito nell’estate del ’23.

La fine della direzione di Bordiga nel PCd’I si colloca sullo sfondo della vittoria in Russia di Stalin e della sua progressiva presa sull’Internazionale. Nonostante fosse dimissionario dall’esecutivo e avesse inasprito il suo dissenso rispetto alle direttive del Comintern, la base e i quadri intermedi del partito rimanevano fedeli alle sue direttive. Il suo prestigio, anzi, crebbe quando venne arrestato e si dovette difendere in tribunale. La sua arringa, in cui rivendicò la necessità della prospettiva rivoluzionaria e la difesa degli interessi di classe, aggiunse ulteriore fascino alla sua personalità tra i militanti del partito. Per incrinarlo fu necessaria un’aggressiva azione dell’esecutivo internazionale (ormai sulla via della degenerazione staliniana) che individuò una direzione alternativa nel gruppo degli ordinovisti e una figura in grado di oscurare Bordiga in Gramsci. Ma per riuscire nel compito era necessario anche fare ricorso ai metodi organizzativi che Zinovev aveva perfezionato nel tempo.

La nuova direzione centrista nominata da Mosca si adeguò al processo di stalinizzazione dei partiti comunisti, spacciata sotto il nome di bolscevizzazione. Fece largo uso dell’accusa di frazionismo nei confronti di Bordiga e dei suoi, che pure erano l’unica direzione eletta in un congresso ufficiale. Prese il controllo della stampa di partito pubblicando in ritardo gli scritti della sinistra bordighista e facendoli precedere da titoli e commenti calunniosi. Infine, la composizione del partito si modificò nel giro di poco tempo: mentre i vecchi militanti erano in galera o costretti a emigrare, le file dell’organizzazione furono reintegrate con una nuova leva di attivisti, per lo più bianchi politicamente. Al convegno di Como del maggio ‘24, che preparava il terzo congresso del partito, le posizioni di Bordiga raccolsero ancora la maggiore approvazione tra i delegati, ma pochi mesi dopo, nel gennaio 1926, a Lione la maggioranza per il centro di Gramsci fu schiacciante.

Alla battaglia politica nel partito Bordiga affiancò anche la lotta a livello internazionale. Nel momento di più aspro confronto per la direzione del PCd’I, egli decise di intervenire sulle questioni che stavano dilaniando il partito russo con un articolo, la cui pubblicazione fu lungamente rinviata, sulla ‘Quistione Trotzky’. Prendendo le mosse dal volume del rivoluzionario russo sul 1917 da poco pubblicato, egli cercò una convergenza sul problema della «necessaria revisione della tattica internazionale dell'Internazionale e […] verificazione del suo modo interno di organizzarsi, di lavorare e di prepararsi ai compiti della rivoluzione.»[36] Bordiga concorda con l’analisi dei diversi momenti dell’ottobre russo e sul parallelismo con la situazione vissuta dal partito tedesco nel ’23. Prende poi posizione sull’accusa di trotzkismo e di frazionismo, con lo sguardo rivolto chiaramente alla polemica interna al partito italiano: «Trotzky non sosteneva il frazionismo sistematico e la decentralizzazione, ma un concetto marxista e non meccanico e soffocatore della disciplina.»[37] Se sul piano della libertà di discussione interna la vicinanza tra le istanze dell’Opposizione di sinistra internazionale e Bordiga era evidente, molti erano però i punti di dissenso tra il rivoluzionario russo e il dirigente italiano, che resero impossibile una maggiore collaborazione. In particolare, un abisso separava il marxismo dialettico di Trotskij, attento alla tattica e fondato sull’idea di programma di transizione tra compiti immediati e obiettivo rivoluzionario, dal ‘settarismo dottrinario’ di Bordiga[38]. Nonostante ciò, l’articolo favorì la strumentale sovrapposizione tra la sua tendenza e il ‘trotzkismo’, sovrapposizione che Bordiga pagò in prima persona. Quando, dopo anni di confino, nel 1930 gli venne chiesto di pronunciarsi su Trotskij, espulso dal partito russo e ormai in esilio, si dichiarò a suo favore e fu cacciato dal partito che aveva fondato.

Negli anni finali del fascismo le sue idee continuarono a vivere nelle battaglie dei suoi seguaci all’estero, mentre lui cadde nel più totale silenzio politico. Dopo la guerra e fino alla fine dei suoi giorni riprese le fila della costruzione di un’organizzazione comunista modellata sulle sue idee, ma la sua concezione rigida e astratta del partito impedì che potesse svolgere un ruolo significativo, anche nei momenti in cui il conflitto di classe si tornò ad accendere in Italia. Il secondo dopoguerra vide, in definitiva, il lento tramonto di un comunista dogmatico, settario nella sua concezione della lotta politica, ma sinceramente rivoluzionario e convinto della necessità del socialismo per l’emancipazione degli sfruttati. Di molti suoi avversari non si può dire lo stesso.

Note:

[1] ‘La gioventù socialista e le organizzazioni economiche’, in Avanguardia, 12 settembre 1912.

[2] Ibid.

[3] Ferdinand Lassalle (1825-1864) socialista moderato. Riteneva che il suffragio universale costituisse il principale rimedio ai mali della classe operaia.

[4] Eugene Sorel (1847-1922) padre del sindacalismo rivoluzionario.

[5] Henri Bergson (1859-1941) filosofo di tendenza spiritualista e individualista.

[6] ‘La nostra missione’, in Avanguardia, 2 febbraio 1913.

[7] ‘Il momento politico attuale’, in Il Lavoro, 5 gennaio 1913.

[8] Queste riflessioni tornano in più articoli degli anni ’13-’14, in particolare in ‘L’equivoco regionale’, in Avanti!, 6 marzo 1914.

[9] A. De Clementi, Amadeo Bordiga, Einaudi 1971, 28-33 ha enfatizzato, forse eccessivamente, questa convergenza tra il pensiero di Bordiga e quello di Lenin.

[10] L’avvicinamento alla sinistra internazionale e all’elaborazione di Lenin sulla guerra è sottolineato da P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, Einaudi 1967, p. 12.

[11] ‘Pel socialismo rivoluzionario contro le degenerazioni’, in Il Socialista, 17 dicembre 1914

[12] ‘Per farci intendere’, in Il Socialista, 3 dicembre 1914.

[13] Lo testimonia il successo del suo intervento al congresso di Roma della FGSI, dove un suo ordine del giorno raccolse ben 12.000 voti, appena 2.000 in meno di quello di maggioranza.

[14] Spriano, Op. cit., pp. 3-19.

[15] ‘Le direttive marxiste della nuova Internazionale’, in Avanguardia, 26 maggio 1918.

[16] Il migliore resoconto di questo singolare congresso in L. Cortesi, Le origini del PCI, Laterza 1971, pp. 127-135.

[17] De Clementi, Op. cit., pp. 59-62.

[18] ‘Formiamo i “Soviet”?, in Il Soviet, 21 settembre 1919.

[19] ‘Il sistema di rappresentanza comunista’, in Il Soviet, 13 settembre 1919.

[20] Segna questa evoluzione l’articolo ‘Crisi d’indirizzo’, apparso non firmato su Il Soviet, 18 maggio 1919. Su questo passaggio vd. De Clementi, Op. cit., pp. 86-87.

[21] «Il suo compito (del partito comunista) è quello di accentrare in sé l’attenzione di tutta la massa, di ottenere che le sue direttive diventino le direttive di tutta la massa, di conquistare la fiducia permanente di tutta la massa in modo da diventarne la guida e la testa pensante. Perciò è necessario che il partito viva sempre immerso nella realtà effettiva della lotta di classe combattuta dal proletariato industriale e agricolo, che ne sappia comprendere le diverse fasi, i diversi episodi, le molteplici manifestazioni, per trarre l’unità dalla diversità molteplice», dal ‘Programma dell’Ordine Nuovo e della sezione socialista torinese’, in Lenin, Sul movimento operaio italiano, Editori Riuniti 1976, p. 271.

[22] ‘Discorso di Bordiga sul parlamentarismo al II congresso dell’Internazionale comunista’, in Rassegna Comunista n.8 1921.

[23] Lenin, ‘Sulle tesi antiparlamentari di Bordiga’, Sul movimento operaio italiano, pp. 197-201.

[24] Vd. Lenin, ‘Falsi discorsi sulla libertà’, in Sul Movimento operaio italiano, pp. 202-218.

[25] ‘Verso il Partito Comunista’, in Avanti!, 20 dicembre 1920.

[26] Resoconto stenografico del XVII Congresso nazionale del Partito socialista italiano, edizioni Avanti! 1921, p. 411.

[27] Il primo esecutivo del partito, composto da Bordiga, Fortichiari, Terracini, Grieco e Repossi, lavorava collegialmente, senza un segretario. La preminenza di Bordiga, però, era nei fatti, se non nella forma.

[28] Si veda, al riguardo, F. Livorsi, Amadeo Bordiga. Il pensiero e l’azione politica 1912-1970, Editori Riuniti 1976, pp. 190-198.

[29] ‘Partito e classe’, in Rassegna Comunista, anno 1, n. 2, 15 aprile 1921.

[30] Ibid. Il termine ‘minoranza’ è ripetuto in maniera quasi ossessiva in tutti gli articoli di questa fase. A conferma di ciò, al III congresso del Comintern Terracini, a nome del PCd’I, presentò un emendamento per togliere la parola ‘maggioranza’ dalla frase «nessuno dei [partiti comunisti] ha preso nelle sue mani l’effettiva direzione della maggioranza della classe operaia». Un emendamento che sintetizza tutta l’elaborazione bordighiana sul rapporto tra minoranza organizzata in partito e classe come unica entità che nel partito si riconosce.

[31] ‘Partito e azione di classe’, in Rassegna Comunista, anno 1, n. 4, 31 maggio 1921.

[32] Così nel quarto comma dello statuto del PCd’I: L’organo indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato è il partito politico della classe.

[33] ‘La tattica dell’Internazionale Comunista’, in L’Ordine Nuovo, 31 gennaio 1922.

[34] ‘Il valore dell’isolamento’, in Il Comunista, 24 luglio 1921.

[35] ‘La fronda fascista’, in Il Comunista, 21 maggio 1921.

[36] ‘La quistione Trotzky’, in l’Unità, 4 luglio 1925 (inviato il 18 febbraio).

[37] Ibid.

[38] L’espressione, chiaramente riferita al metodo di lavoro di Bordiga, è in L. Trotsky, ‘L’espulsione dei tre’, in Scritti sull’Italia, Massari editore 1990, 188