Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con implacabili persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a "consolazione" e a mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota di contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si svilisce. La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale trattamento.
Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia
(V.I.Lenin, da Stato e Rivoluzione)
A sessant’anni dalla morte di Antonio Gramsci, si discute ancora sull’interpretazione del suo pensiero. Chi fu Gramsci? A questa domanda si sono date le risposte più incredibili, con numerose deformazioni, se non vere e proprie falsificazioni storiche, da parte di "autorevoli" intellettuali del movimento operaio.
Di recente Luigi Berlinguer, ha presentato Antonio Gramsci, come uno dei "padri della patria", persino le destre di Fini e Berlusconi ne hanno rivendicato l’eredità nella presentazione dell’assemblea nazionale del Polo sulla scuola e la formazione.
Mancava solo questo, che Antonio Gramsci, dopo essere stato il padre e l’anticipatore della svolta di Salerno, del compromesso storico, dell’eurocomunismo, venisse anche inserito nella galleria dei "padri della Repubblica", come una "figura neutrale" degna di rispetto da ogni dove.
È nostro dovere e di ogni comunista respingere duramente ogni tentativo teso ad annullare il significato profondo del pensiero di Antonio Gramsci, sia in senso riformista, che in quello liberal-democratico-patriottico. È questo il modo migliore per ricordarlo a 60 anni dalla sua morte nelle carceri fasciste.
L’Ordine Nuovo e la scissione di Livorno
Gramsci e il gruppo di Torino organizzato attorno al giornale l’Ordine Nuovo avrà il grande merito di tradurre nella peculiarità italiana le parole d’ordine della Rivoluzione d’Ottobre e di rappresentare la punta più avanzata del movimento operaio italiano.
Gli ordinovisti non solo difenderanno e organizzeranno l’occupazione delle fabbriche, ma saranno i teorici della gestione proletaria. Secondo Gramsci i consigli di fabbrica dovevano essere organi di potere operaio nel controllo della produzione e centri di democrazia socialista nella nuova società.
Durante la rivoluzione italiana del 1920-21, che passò alla storia come il biennio rosso, Gramsci dalle pagine dell’Ordine Nuovo invitò il partito socialista ad armare il proletariato industriale ed agricolo di un programma rivoluzionario che avesse al centro la parola d’ordine "tutto il potere ai comitati di fabbrica".
Non c’è dubbio che queste concezioni fossero il risultato delle esperienze dei lavoratori torinesi, ma come non notare l’influenza ricevuta dai bolscevichi e dal ruolo dei soviet nella Rivoluzione d’Ottobre.
Non a caso Gramsci sulle pagine dell’Ordine Nuovo scriverà: "il soviet si è dimostrato immortale come la forma di società organizzata che aderisce plasticamente ai multiformi bisogni (economici e politici) permanenti e vitali della grande massa del popolo russo".
Gramsci tra il ‘19 e il ‘21 si porrà due obiettivi fondamentali, da lui come da Lenin ritenuti indispensabili per le sorti della rivoluzione: la prima è la formazione di organismi di lotta e di democrazia rivoluzionaria che organizzassero la grande massa dei lavoratori, la seconda è la formazione di una direzione rivoluzionaria che rompesse con tutte le tendenze riformiste (Turati) e massimaliste o centriste (Serrati e Lazzari) nel Psi e nel movimento operaio. I riformisti e i centristi rappresentavano un ostacolo alla rivoluzione, in quanto i primi ne negavano la necessità, i secondi la difendevano ma, non organizzandola con determinazione, di fatto la boicottavano.
La lotta di frazione nel Psi di Antonio Gramsci ebbe inizio nel novembre del 1920 quando si costituì a Imola la frazione comunista su iniziativa di Bordiga. Nel gennaio del ‘21 a Livorno, come è noto si consumerà la scissione e nascerà il Pcd’I (Partito comunista d’Italia).
In quel congresso 58.873 militanti socialisti e tutta la gioventù socialista passarono al partito comunista, 98.023 sostennero la corrente di Lazzari e Serrati e 14.695, sostennero i riformisti di Turati.
L’Internazionale Comunista appoggerà la scissione e il comitato esecutivo, considerando il rifiuto di Serrati di espellere i riformisti di Turati dal partito, dichiarerà il Pcd’I l’unica sezione in Italia dell’Internazionale Comunista, sostenendo l’autoesclusione del Psi.
Al Terzo Congresso del-l’Internazionale Comunista (giugno 1921) i socialisti invieranno una delegazione composta da Lazzari, Maffi e Riboldi che chiederà l’adesione all’Internazionale Comunista: questa venne negata anche se al Pci venne proposta la tattica del Fronte unico verso il Psi allo scopo di attrarre quei militanti socialisti, entusiasti della Russia sovietica e onestamente rivoluzionari che però non avevano ancora tratto la conclusione di rompere con il partito di Serrati.
Trotskij, in quel congresso, nel suo rapporto sulla situazione economica mondiale, disegnerà la nuova fase di riflusso dell’ondata rivoluzionaria e affermerà la necessità di conquistare le masse proponendo l’unità su obiettivi parziali e nella lotta contro il fascismo.
L’Internazionale Comunista si rende conto che gli operai fuori dal Pcd’I non avevano compreso le ragioni della scissione ed era necessario non solo dichiarare la rivoluzione per conquistarli (queste cose le avevano già sentite da Serrati), ma di azioni concrete che dimostrassero il carattere veramente rivoluzionario del nuovo partito.
Inoltre i lavoratori avevano subito una sconfitta storica e l’unico modo per fermare la bande fasciste che nella primavera e nell’estate del ‘21 imperversavano nel paese incendiando le Camere del Lavoro, le sezioni socialiste e comuniste e le sedi dei giornali operai, era proporre ai lavoratori socialisti l’unità d’azione.
Trotskij polemizzò con Bordiga che rifiutava la tattica del Fronte unico ed era contrario a qualsiasi "compromesso" con i socialisti, dicendo: "(...) Preparazione per noi significa la creazione di condizioni tali da assicurarci la simpatia della grande maggioranza delle masse (…) l’idea di sostituire la volontà delle masse con la decisione della cosiddetta avanguardia è assolutamente da rifiutare e non marxista" e ancora "Le azioni rivoluzionarie sono irrealizzabili senza le masse, ma le masse non sono costituite da elementi assolutamente puri".
Il dirigente indiscusso del Pcd’I a quel tempo era Bordiga, le sue concezioni erano egemoniche nel nuovo partito e ampiamente condivise non solo da Gramsci, ma dall’intero gruppo dirigente del Pcd’I.
Accadde così che il partito, pur dichiarandosi per la conquista delle masse si oppose alla tattica del fronte unico ritenendo che l’unico modo per smascherare la politica traditrice dei socialisti era rifiutare qualsiasi tipo di collaborazione con loro. Al massimo si accettava il fronte unico sindacale (non politico).
Con questo atteggiamento il Pcd’I contribuì alla vittoria delle bande fasciste. Quando nacquero gli Arditi del Popolo (organismi di lotta antifascista) che intendevano opporsi militarmente all’avvento del fascismo, essi generarono entusiasmo tra i lavoratori ricevendo le adesioni di sempre più militanti socialisti e comunisti, oltre che di intere Camere del Lavoro. L’atteggiamento sprezzante della direzione del Pcd’I, contro il parere dell’Internazionale, fu quello di minacciare l’espulsione di tutti i comunisti che avessero aderito a questi organismi.
Bordiga si illudeva di poter fermare il fascismo solo con la forza organizzata del partito e delle proprie milizie. La sconfitta fu inevitabile.
Gramsci inizia la lotta contro il settarismo
Tra il maggio ‘22 e il maggio ‘24, Gramsci venne inviato all’estero (Prima a Mosca, poi a Vienna) a far parte di organismi esecutivi dell’Internazionale Comunista. In quel frangente ha l’occasione di ripensare alle posizioni assunte in precedenza, anche grazie alle intense discussioni che ebbe con i dirigenti dell’Internazionale.
Considererà il gennaio del 1921, data della nascita del Pcd’I, come il "momento più critico sia della crisi generale della borghesia italiana, sia della crisi del movimento operaio. La scissione, se era storicamente necessaria ed inevitabile, trovava però le grandi masse impreparate e riluttanti".
Entrerà dunque in polemica con Bordiga criticando la sua concezione del partito, che provocava un distacco sempre più netto dalle masse.
Si rifiuta di sottoscrivere un appello lanciato da Bordiga in cui si critica il comportamento del-l’Internazionale Comunista che tenta di unificare il Pcd’I con gli internazionalisti del Psi (i cosiddetti "terzini"). Un appello che invece troverà il consenso di Togliatti.
Nel dicembre ‘23 Gramsci avanzerà l’idea di formare una corrente di "centro" nel Pcd’I che si opponesse sia all’estremismo di Bordiga, che alle posizioni di destra di Tasca. La battaglia contro la corrente di Bordiga avrà inizio nella conferenza di Como del ‘24, ma culminerà al congresso di Lione del 1926.
Al congresso di Lione le tesi presentate da Gramsci, approvate da oltre il 90% del partito affermeranno che:
- la rivoluzione all’ordine del giorno in Italia è una rivoluzione socialista di cui forze motrici sono la classe operaia, i braccianti e i contadini del Sud e del Nord Italia.
- la classe operaia è la forza dirigente del processo rivoluzionario, alla testa della maggioranza della popolazione.
- la trasformazione della società è un processo che necessita di una rottura rivoluzionaria, cioè di un’insurrezione di massa preparata e organizzata dal partito.
- la sconfitta del movimento operaio nel biennio rosso si dovette all’assenza di un partito rivoluzionario.
- il partito comunista deve conquistare la maggioranza della classe operaia con una battaglia tenace nelle organizzazioni di massa per rivendicazioni immediate e obiettivi comprensibili alle larghe masse. È questo l’unico modo per far maturare la loro coscienza e provocare il loro distacco dalle organizzazioni riformiste.
- il fronte unico è lo strumento fondamentale in questa lotta, nelle condizioni date questa tattica doveva essere condotta con la proposta del governo operaio e contadino.
La nuova strategia del partito si basava sulle tesi dei primi quattro congressi dell’Internazionale Comunista, ne assimilava gli orientamenti applicandoli alle condizioni concrete dell’Italia.
Questo è vero in generale anche se nelle tesi restano delle affermazioni settarie nei confronti dei massimalisti e dei riformisti che vengono presentati più come la sinistra delle forze borghesi, che come la destra del movimento operaio.
Inoltre le parole d’ordine hanno un carattere più di parole d’ordine parziali, che di parole d’ordine di transizione verso una società socialista.
Tuttavia il limite più grande in quel congresso fu che Gramsci si fece aperto sostenitore dell’ambigua campagna aperta su scala internazionale della "bolscevizzazione" del partito, non intesa come nei primi anni del potere sovietico come campagna di formazione ed educazione dei giovani partiti comunisti sulla base dell’esperienza bolscevica e della rivoluzione russa, ma intesa come lotta amministrativa, con metodi disciplinari contro il "frazionismo" e caccia poliziesca alle opposizioni politiche con una estrema disinvoltura ad accettare espulsioni e misure disciplinari.
Questo si inseriva in un quadro di degenerazione dell’Internazionale Comunista, avvenuta dopo la morte di Lenin, la quale ormai, diretta sempre più saldamente dagli stalinisti, apriva una campagna di calunnie minacciose contro l’Opposizione di sinistra e contro Trotskij in particolare.
Non è questo il momento per analizzare nei dettagli le ragioni di detta degenerazione, per la quale rimandiamo i lettori agli opuscoli di Lev Trotskij già pubblicati da questa rivista sull’argomento, quali Stalinismo e Bolscevismo, In difesa dell’Ottobre e lo Stato Operaio, il Termidoro e il Bonapartismo.
Gramsci comunque in questo ambiente sviluppatosi a livello internazionale e nonostante le condizioni di clandestinità in cui era costretto ad agire il partito italiano, continuò a difendere il diritto di tendenza nel partito (diritto che il Pci contestò per tutto il tempo della sua esistenza e che Rifondazione Comunista contesta tutt’oggi).
L’atteggiamento di Gramsci verso lo stalinismo
Poco prima dell’arresto, Gramsci scrisse una lettera al comitato centrale del Pcus a nome del partito che ha un valore significativo per comprendere il suo atteggiamento verso lo scontro in atto nel partito bolscevico.
Di questa lettera pubblichiamo ampi stralci nel riquadro.
Sostanzialmente in questo scritto Gramsci pur non volendo entrare nel merito delle questioni in discussione in Urss, prende posizione politica per la maggioranza non condividendo le critiche politiche dell’Opposizione di sinistra.
Allo stesso tempo prende le difese dell’Opposizione contro la "caccia alle streghe" in atto, che prepara la soppressione di ogni tipo di democrazia nel partito.
Nell’ambiente che si era instaurato a livello internazionale, Gramsci va dunque controcorrente, difende Trotskij e l’Opposizione di sinistra contro le espulsioni e ne riconosce il ruolo (insieme a Zinoviev e Kamenev) di grandi maestri rivoluzionari, che non è poco se si considera che in quel momento questi dirigenti venivano infamati come controrivoluzionari.
Togliatti, che in quel periodo era a Mosca, difatti fece di tutto per bloccare questa lettera di Gramsci e si troverà in frontale disaccordo. Secondo lui il Pcd’I non avrebbe dovuto manifestare alcuna riserva verso la maggioranza del Pcus. Gramsci replicò a Togliatti con durezza "(...) saremmo dei rivoluzionari ben pietosi e irresponsabili se lasciassimo compiersi i fatti compiuti, giustificandone a priori la necessità (...) Questo tuo modo di ragionare mi ha fatto perciò una impressione penosissima."
Per concludere si può dire che anche se Gramsci ebbe delle effettive responsabilità nella burocratizzazione dell’Internazionale e del partito in Italia, va riconosciuta la sua indipendenza di giudizio e in ultima analisi il rifiuto a una concezione monolitica del partito dove il dissenso doveva essere semplicemente schiacciato.
In questo le sue differenze con Togliatti, che prese in seguito la direzione del Pcd’I quando Gramsci fu arrestato sono abissali.
La burocratizzazione del Pcd’i e l’espulsione dei "tre"
Togliatti divenne esecutore della linea staliniana, trasformò sempre più il partito in uno strumento della politica estera della burocrazia sovietica, questo processo venne aiutato dal fatto che la direzione staliniana poteva fregiarsi del prestigio della Rivoluzione d’Ottobre, e dalla estrema difficoltà, considerando la clandestinità, dei militanti a ricevere le informazioni corrette su quello che succedeva in Urss.
Nel 1928 l’Internazionale Comunista adotta la politica del "socialfascismo" altrimenti detta del Terzo periodo. Il succo di questa teoria è che a livello internazionale si apriva una nuova fase di ondate rivoluzionarie e che il nemico principale da combattere erano i partiti riformisti e socialisti, particolarmente quelli più di sinistra che giocano il ruolo di quinte colonne dell’imperialismo.
Secondo una famosa relazione di Molotov in un congresso dell’Internazionale, fascisti e socialisti erano "gemelli", da cui la definizione affibbiata ai riformisti di socialfascisti.
Questa teoria era falsa in tutta Europa; Trotskij la confuterà in uno scritto magistrale per l’applicazione che gli stalinisti ne fecero in Francia, in un articolo da noi pubblicato recentemente chiamato Il terzo periodo degli errori dell’Internazionale Comunista.
Ma nel caso dell’Italia questa teoria era ancora più ridicola in quanto dichiarare che si stesse preparando una situazione prerivoluzionaria in pieno regime fascista, quando Mussolini godeva di un forte consenso, le masse proletarie erano inerti e il Pcd’I disponeva di una piccolissima rete di militanti clandestini, con alcuni tra i principali dirigenti in carcere, non stava ne in cielo, ne in terra.
Nel 1930 si costituì infatti un’opposizione alla linea di Togliatti, diretta da tre membri su sette dell’allora Ufficio Politico del Pcd’I.
Tresso, Leonetti e Ravazzoli si opposero alla teoria del socialfascismo collegandosi alle posizioni sostenute dall’Opposizione internazionale di Trotskij.
I "tre" sostenevano molti degli elementi fondanti delle tesi di Lione contro la svolta settaria del Pci. Ma nel dibattito invece degli argomenti Togliatti preferì usare gli insulti e i tre vennero rapidamente espulsi insieme ad una trentina di altri dirigenti del partito.
Secondo le testimonianze di alcuni suoi compagni di cella sembrerebbe che Gramsci rimase negativamente colpito dall’espulsione dei tre. Tresso era stato uno dei suoi allievi prediletti ma forse la cosa che lo turbava di più è che aveva una comunanza di opinioni con i compagni espulsi dal partito.
Lo stesso Pci negli anni ‘60 ha ammesso che Gramsci in quel periodo non avrebbe condiviso le posizioni del partito e dell’Internazionale.
Secondo un rapporto scritto da un militante, Athos Lisa, nel 1933, Gramsci si indignava della superficialità di certi compagni che nel 1930 vedevano come imminente la caduta del fascismo e che si sarebbe passati direttamente dalla dittatura fascista alla dittatura del proletariato.
Il fratello di Gramsci, Gennaro, molti anni dopo testimonierà che Antonio era d’accordo con Leonetti, Tresso e Ravazzoli, non giustificava l’espulsione e non accettava la linea dell’Internazionale Comunista.
Secondo una testimonianza di Sandro Pertini, Gramsci non condivideva neanche la caratterizzazione data ai socialisti di socialfascisti.
Non a caso infatti in una relazione fatta in carcere, Gramsci formulò la parola d’ordine dell’assemblea costituente eletta con suffragio universale uguale, diretto e segreto, esteso ai cittadini di ambo i sessi a partire dai 18 anni, che fu la stessa parola d’ordine che indicavano i tre in una lettera scritta a Trotskij nel 1930.
Nella risposta a questa lettera Trotskij disse "(... è precisamente con l’aiuto di queste parole d’ordine di transizione dalle quali scaturisce sempre la via verso la dittatura del proletariato, che l’avanguardia comunista dovrà conquistare la classe operaia tutta intera e che quest’ultima dovrà unificare attorno a sé tutte le masse sfruttate della nazione ...)"
Di fatto Trotskij e Gramsci furono gli unici due dirigenti che a livello internazionale seppero dare del fascismo una caratterizzazione valida, non solo come semplice reazione capitalista, ma di movimento di massa della piccola borghesia urbana e rurale che punta a cancellare con la violenza fisica tutte le forme di organizzazione del movimento operaio, dai partiti politici, ai sindacati fino alle cooperative e ai circoli ricreativi.
Non sapremo mai cosa sarebbe successo se Gramsci non fosse stato in carcere durante la svolta del terzo periodo, forse si sarebbe unito all’Opposizione di sinistra oppure avrebbe fatto
un appello all’unità del partito" come fece nel ‘26.
Quello che conta è che comunque Gramsci in una condizione penosa, di isolamento e con una estrema difficoltà a ricevere informazioni sviluppò una posizione molto più corretta di quei dirigenti dell’Internazionale che erano immersi nella lotta politica, con a disposizione l’esperienza e le informazioni che numerosi partiti di massa potevano fornirgli aiutandoli ad orientarsi.
Questo dice qualcosa sulla grandezza politica di Antonio Gramsci, ma dice molto anche sui disastri provocati dallo stalinismo nel movimento operaio.
I Quaderni dal carcere
In più di 10 anni passati in carcere la produzione letteraria di Gramsci fu molto ampia. I Quaderni pubblicati per la prima volta nel 1948 sono stati scritti da Gramsci sotto il controllo della censura fascista, il linguaggio che Gramsci è costretto a usare è spesso ambiguo e ha un carattere più sociologico che politico. Infatti quello dei Quaderni è un Gramsci molto diverso da quello dell’Ordine Nuovo o delle tesi di Lione.
Ci sono comunque delle riflessioni nei Quaderni estremamente interessanti che sono state utilizzate (in particolare dai dirigenti del Pci nel dopoguerra) per sostenere che Gramsci stesse maturando una concezione gradualista della conquista del potere politico.
L’interpretazione più controversa in questo senso riguarda il concetto di egemonia.
Va detto in primo luogo che il concetto di egemonia non è una prerogativa esclusiva di Antonio Gramsci ma faceva parte del patrimonio della socialdemocrazia russa già dall’inizio del secolo.
Anche nelle tesi del 3° congresso dell’Internazionale Comunista la parola egemonia viene utilizzata nel senso di direzione del proletariato sulle altre classi sfruttate nella lotta contro il capitale.
In un passaggio delle tesi del 4° congresso il concetto viene esteso e si utilizza il termine egemonia per definire il dominio che la borghesia esercita sul proletariato in regime capitalista.
Fu l’unico esempio in cui il termine egemonia venne utilizzato in questo senso e in un certo senso fu il punto di partenza di Gramsci che intorno all’egemonia borghese sulle classi proletarie svilupperà un approfondito ragionamento.
Il problema che tenta di analizzare Gramsci è che carattere doveva avere la rivoluzione in occidente dove la borghesia era indiscutibilmente più solida di quella russa e aveva costruito una rete di strumenti tesi a esercitare il controllo sociale ma anche a conquistare il consenso dei lavoratori. Secondo Gramsci "(... in Russia lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte ...)"
Che strategia rivoluzionaria è necessaria per l’Occidente? Gramsci considera impraticabile la guerra di movimento (utilizzata nella Rivoluzione Russa) e ritiene che la strada giusta sia quella della guerra di posizione, dichiara che Lenin aveva intuito questa necessità e la tattica del fronte unico fu la risposta a questo.
A questo proposito criticherà Trotskij, a nostro parere ingiustamente, quando definisce la teoria della rivoluzione permanente, la teoria della guerra di movimento e dello scontro frontale sul campo politico e militare. Di fatto lo assimila a Bordiga o ai comunisti tedeschi che nel marzo del 1921 fecero un’insurrezione senza il sostegno delle masse, che comportò perdite enorme e una conseguente sconfitta del partito comunista tedesco che pagò un prezzo altissimo per quei comportamenti putschisti.
Questo dimostra come Gramsci molto probabilmente non avesse mai letto la rivoluzione permanente, e ne dà come minimo un’interpretazione arbitraria se si considera che Trotskij, fu con Lenin uno dei principali artefici della tattica del fronte unico, criticò duramente i comportamenti settari dei comunisti tedeschi del marzo del 1921 e come dimostrano i suoi scritti militari fu un oppositore anche sul terreno militare ai "teorici dell’offensiva" come Frunze e Tukacevskij.
Ma a parte che nella Russia prerivoluzionaria la società civile non era poi così "gelatinosa", in realtà Gramsci si pone un problema a cui molto difficilmente può dare una risposta isolato com’è nel carcere di Turi, e infatti non darà mai una risposta definitiva al problema della rivoluzione in Occidente.
È certo che uno dei punti centrali della sua riflessione riguarda la questione del consenso. A un certo punto nei Quaderni Gramsci sembra sostenere (anche se per la verità ci sono dei passaggi contraddittori) che in occidente il partito deve conquistare maggiore consenso che nella Russia del ‘17 perché l’avversario è molto più forte e governa più col consenso che con la coercizione. Questo è senz’altro vero in un certo senso, in regime di democrazia parlamentare, anche se consenso e coercizione sono due facce della stessa medaglia che la borghesia usa per mantenere il suo dominio alternandoli a seconda della situazione.
Lo stesso vale per la rivoluzione. Nel processo rivoluzionario la classe operaia si fa forza egemone nella società ma la conquista del consenso deve necessariamente combinarsi con l’uso della forza (certamente di massa e non individuale, di una maggioranza contro una minoranza) contro la reazione e le forze ostili alla rivoluzione.
Il fatto che la classe operaia debba conquistare il consenso della maggioranza della popolazione, anche in certi casi facendo concessioni alle classi medie una volta che giunge al potere (l’esempio della Nep lo dimostra) non significa che la trasformazione della società non debba avvenire per via rivoluzionaria attraverso una insurrezione.
Questa concezione classica del marxismo sulla questione dello Stato in nessun momento venne messa in discussione nei Quaderni e questa è la dimostrazione della natura rivoluzionaria e comunista del pensiero di Antonio Gramsci.
Si aggiunga a questo come la concezione di Gramsci sul partito (intellettuale collettivo e partito inteso come "moderno principe") è quella tipica del partito rivoluzionario composto da quadri marxisti intellettualmente preparati. Quando lui parla di un partito composto tutto da intellettuali, non intende dire, ovviamente, che le sue porte devono essere precluse agli operai o alle masse più in generale, si riferisce a un partito con un livello politico elevato composto non da semplici iscritti ma da militanti coscienti che partecipano e contribuiscono a od ogni aspetto della vita del partito.
Ma Gramsci ebbe anche il grande merito di fornirci una storia del Risorgimento italiano da un punto di vista proletario contro la retorica sull’Unità d’Italia fornitaci dalla borghesia a differenza di Marx ed Engels che, conoscendo poco la realtà italiana, furono molto limitati in questo senso, soprattutto nella critica al ruolo controrivoluzionario giocato nel Risorgimento dai democratici di Mazzini e Garibaldi (che come noto in una prima fase erano membri della Prima Internazionale).
Gramsci fa una analisi spietata della subalterneità di Garibaldi e dei democratici verso i liberali di Cavour e la monarchia. Il Risorgimento fu una rivoluzione borghese non completata per la codardia della borghesia italiana che non aveva il coraggio di sbarazzarsi del Re e della nobiltà.
Per il suo ritardo storico sulla scena mondiale e per la sua inconsistenza economica la borghesia italiana era molto diversa dai giacobini francesi è invece di aprire lo scontro frontale con la nobiltà decise alla fine di allearsi con essa. I democratici si sottomisero a questa alleanza e ne furono alla fine esecutori.
Infatti quando i contadini poveri, sull’onda dello sbarco dei Mille in Sicilia, decisero di occupare le terre dei grandi latifondisti portando a termine uno dei compiti principali della rivoluzione borghese, vennero massacrati non dai Borboni ma dalle truppe dello stesso Garibaldi e di Bixio.
Questo "tradimento storico" stava alla base del sottosviluppo del Mezzogiorno, da cui ne conseguiva a parere di Gramsci, l’incapacità della borghesia di risolvere il problema agrario.
Esso poteva essere risolto solo nel corso della rivoluzione socialista in una alleanza tra il proletariato e i contadini appunto il "blocco storico" su cui doveva far perno la rivoluzione.
Per Gramsci dunque i problemi di sottosviluppo del Mezzogiorno non potevano trovare soluzione in regime capitalista.
Ed è sorprendente come oggi questi ragionamenti siano così attuali e così poco ascoltati dalla sinistra italiana che celebra Gramsci senza comprenderne il profondo messaggio rivoluzionario.
[Pubblicato in FalceMartello n° 116, 19-5-1997]